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Running in the City

condividi su facebook condividi su twitter Di: Paolo Valenti 01-11-2015 - Ore 10:01

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Running in the City

Oggi si corre la 45° edizione della maratona di New York. La maratona per eccellenza, anche se i puristi della materia potrebbero storcere il naso su questa affermazione. Ce ne sono infatti di più impegnative (quella di Boston su tutte) e con percorsi più affascinanti. Ma New York è New York, no question about it. E così, dalla prima edizione del 1970, a cui parteciparono poco più di un centinaio di concorrenti, a quella del 2014, che ha visto più di 50.000 persone tagliare il traguardo, la manifestazione ha costruito su se stessa un incremento di fascino che non ha pari al mondo. Per chi ama correre, dai neofiti della disciplina ai runners più esperti, New York è un’aspirazione che prima o poi si insinua nel cervello e, una volta sperimentata, rimane nel cuore. Un’aspirazione che ha i contorni dell’impresa: correre più di quarantadue chilometri per le strade della Grande Mela è un sogno realizzabile solo con impegno e grande passione.
I giorni immediatamente precedenti la gara, che si corre ogni anno la prima domenica di novembre, le strade di Manhattan pullulano di non residenti che incrementano un traffico pedonale già sufficientemente sostenuto dai newyorkesi: americani giunti da altri stati e, soprattutto, cittadini stranieri provenienti da ogni parte del mondo. Central Park scoppia di amatori che scorrazzano sui sentieri asfaltati del polmone verde della città per rifinire la preparazione e sciogliere i muscoli in vista del grande sforzo che li attende. C’è chi riesce a sfidare il freddo equipaggiato di soli pantaloncini e canottiera e chi, più sensibile agli sprazzi di vento che dall’Atlantico si insinuano in mezzo ai grattacieli, preferisce indossare materiale più tecnico e protettivo. Anche i professionisti, i favoriti per la vittoria finale, percorrono i loro ultimi chilometri di preparazione a fianco di coloro che ci metteranno il doppio del tempo per arrivare al traguardo di Tavern on the Green, all’interno di Central Park.
La domenica della gara comincia la mattina molto presto: bisogna fare colazione e poi arrivare non oltre le sette all’accampamento militare di Fort Wadsworth, Staten Island, dove è situata la partenza ai piedi del Ponte di Verrazzano. E’ lunga l’attesa (circa tre ore) che separa i partecipanti dal breve discorso del sindaco che precede il colpo di cannone che sblocca il cronometro. Un serpentone umano si snoda lentamente sul ponte di Verrazzano, tra giochi d’acqua nella baia sottostante e le note di Liza Minnelli che canta New York New York. Si plana quindi su Brooklyn: è il primo vero contatto con ciò che significa partecipare a questa competizione. I primi drappelli di folla si assiepano ai margini della strada incitando senza sosta i corridori, dal gruppo dei primi agli ultimi. Una cornice di tifo, festa, eccitazione che elettrizza il percorso fino all’ultimo chilometro. Spettatori di tutte le etnie battono il cinque ai runners più vicini ai marciapiedi, bandiere multicolori sventolano dai balconi, complessini da strada riempiono l’aria di musica. Per un giorno le strade ampie della città sono invase solo da energia pulita. I quartieri rotolano via chilometro dopo chilometro: Bay RidgeSunset Park, Bedford-StuyvesantWilliamsburgGreenpoint. Il ponte Pulaski segna la fine della prima metà di gara e conduce nel distretto del Queens. Altra luce, altri colori fino a quando si arriva ai piedi del mostro della maratona, il Queensboro Bridge, che, situato a cavallo dell’East River, traghetta i corridori a Manhattan. Corridori che hanno già alle spalle ventiquattro chilometri e cominciano a sentire i primi morsi della fatica. Il Queensboro è lì, come la balena di Pinocchio, pronto a inghiottirli nell’ombra della sua strada coperta: ottocento metri in salita capaci di tagliare le gambe a chiunque se non vengono affrontati nel modo giusto. I meno preparati camminano, i più forti rallentano onde evitare un sovraccarico di lavoro che può compromettere un buon finale di gara. Poi la discesa, un fascio di luce e l’uscita dal tunnel, accompagnata dal boato fragoroso degli spettatori assiepati nella curva a gomito che prelude all’imbocco della First Avenue: larga, lunga, apparentemente piana. In realtà si tratta di un lungo rettilineo in falsopiano che mette alla prova la resistenza dei runners. E’ qui che si vede la qualità dell’allenamento svolto nei mesi precedenti; ed è qui che si capisce davvero cos’è una maratona. Non è più solo una questione di fisico: dopo il trentesimo chilometro concentrazione, determinazione e volontà diventano ancora più importanti delle poche energie rimaste in corpo. Passata la First Avenue, qualche centinaio di metri nel Bronx prima di ritornare a Manhattan attraversando il Madison Avenue Bridge. Il desiderio di essere in prossimità dell’arrivo distorce il senso delle distanze: c’è ancora molto da correre tra Harlem, Markus Garvey Memorial Park e il Museum Mile. Ma la gente che supporta i maratoneti negli ultimi chilometri di gara lo fa con ancora maggior convinzione. Il pubblico ai lati della strada percepisce con lucidità l’affanno dei corridori e la vicinanza del traguardo e così le frasi di incitamento si susseguono con un’intensità pari alle presenze appoggiate alle transenne:”You’re almost there”; “You’re gonna make it”; “You’re great!”. Parole che danno energia, commuovono, trovano un senso alla fatica corrosiva e struggente che i runners non possono esimersi dal gestire negli ultimi chilometri di un percorso che non è soltanto fisico ma interiore, quando mille pensieri sgorgano dall’inconscio a generare emozioni. Il ricordo di qualcuno che non c’è più, l’immagine di una persona amata che incita a non mollare, la voglia di dimostrare a se stessi di esser capaci di compiere qualcosa di grande, sono il carburante che sostiene ogni maratoneta nell’ultimo chilometro di gara, quello che si dipana tra Central Park South e Columbus Circle fino ad arrivare alle ultime centinaia di metri dentro il polmone verde dell’ombelico del mondo. Il traguardo, col cronometro ufficiale a segnare il tempo di arrivo, è il suggello di un’avventura cominciata mesi prima, il cui ultimo capitolo è lungo quarantadue chilometri e centonovantacinque metri. Un’avventura sostenuta dalla forza e dalla volontà su cui fanno leva i sogni. Un’avventura chiamata maratona, che quando si disputa a New York ha un sapore ancora più speciale.         

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