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RICCARDO VIOLA: "Mio padre viveva 24 ore al giorno di Roma e della Roma"

condividi su facebook condividi su twitter Redazione 19-03-2014 - Ore 21:33

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RICCARDO VIOLA:

"Dino Viola se l’è vissuta tutta, la Roma, ha rappresentato la svolta per una società e per una città che non doveva avere più alibi, doveva imparare la dignità di vincere". Sono le parole di Riccardo Viola, figlio del compianto presidente del secondo scudetto, che, cme riporta il sito romanews.eu,  ha ripercorso ieri sera, a La Partita Perfetta su Gold Tv, gli anni della presidenza Viola, anni di passaggio per un calcio che stava diventando quello moderno e che andava modificandosi talmente tanto da fargli pronunciare una frase forte, cioè che dal punto di vista calcistico suo padre è morto "nel momento giusto". Già, perché la storia dell'ingegner Viola è stata quella di una società di calcio gestita come un’azienda familiare:
"Ho un ricordo meraviglioso di quegli anni, ma nel ’92, anche a prescindere dalla scomparsa di mio padre, il calcio stava cambiando ed era giusto che noi lasciassimo la Roma. Anche i Sensi, seppure con altre potenzialità economiche, si trovarono fuori mercato dopo un certo numero di anni. L’avvento di Berlusconi e del denaro fresco nel calcio ha spiazzato tutti".
Di quegli anni rimane l'immagine di Dino Viola: "Una persona che viveva 24 ore al giorno di Roma e della Roma. Le vittorie arrivarono, fummo i rivali della Juve per parecchi anni, fu un successo per tutta la città, la stessa Lazio da lì iniziò un percorso di concorrenza con noi".
Il calcio di allora aveva una dimensione più: "umana, in cui il calciatore era molto più disponibile, c'era semplicità e correttezza dei rapporti nei confronti dei giornalisti", d'altronde diversamente la famiglia Viola non avrebbe potuto vivere di calcio dalla mattina alla sera, anche in vacanza: "Mio padre faceva il calciomercato a Sabaudia. Quando decidevamo di fare due passi sulla spiaggia la premessa era 'non parliamo di Roma'. Ma se si accorgeva che qualcuno non lo riconosceva, tornava indietro per farsi riconoscere e iniziare a parlare di Roma con la gente".
Quando decise di prendere la società, lo comunicò tramite una riunione di famiglia con gli amici più stretti: "Ci disse: 'Ho preso la Roma, ma non dobbiamo comparire. Non so se farò il presidente e ovviamente voi non ci siete dentro'. Mi sembrò strano, infatti dopo tre mesi, poco per volta, siamo stati coinvolti: mia madre seguiva mio padre ovunque, passava giornate intere a Trigoria e, indirettamente, divenne un'esperta di calcio tremenda".
Nella Roma di quegli anni nacque il famoso linguaggio 'violese': "In realtà era la risposta di Dino ViolaLiedholm". I loro dialoghi erano surreali e "quando iniziavano a parlare, gli altri non capivano nulla. Di fronte alla domanda di mio padre, per esempio su un giocatore da comprare, Liedholm rispondeva con i suoi paradossi e allora Dino Viola 'allacciava' un altro paradosso. Nacque così il Violese. Diverso fu con Eriksson che invece gli scriveva la lista di nomi di giocatori da prendere e mio padre se la teneva nel portafoglio come una reliquia. Non era abituato a tanta chiarezza".
Parlando dei nomi di allora, Riccardo Viola racconta l'aneddoto di quando con Eriksson tornarono dal torneo di Amsterdam dopo aver visto un giovane calciatore molto forte fisicamente che piaceva al tecnico svedese, lo voleva a tutti i costi: era di colore e aveva i capelli lunghi: "come? Di colore? I capelli lunghi, le treccine? Non lo prendiamo..." . Era Ruud Gullit.
Viola fu un presidente coraggioso, nel bene e nel male, e a Riccardo Viola piace ricordarlo: "Quando c'erano le contestazioni, Dino Viola non aveva problemi ad andare a parlare con i tifosi, andava sotto la curva a stigmatizzare i comportamenti che non gradiva, a volte non veniva nemmeno riconosciuto". E anche per questo, in parte, divenne scomodo: "Nell'ultimo periodo non ha capito che cominciava ad avere dei nemici. Forse avrebbe dovuto fermarsi. Le sue battaglie contro il sistema erano continue e in alcune ci mise in difficoltà, come nel caso Lipopill, dove raccontò, assumendosi tutta la responsabilità, una storia che non stava in piedi. O nel caso della risoluzione del contratto di Falcao, licenziato da Viola contro tutti, aveva anche la stampa contro. L'affetto per il brasiliano rimase, ma si arrivò alla rescissione per il bene della Roma". Il tutto passando per il caso Vautrot, in cui Dino Viola riteneva di poter "smascherare chi lo voleva ricattare, ma sbagliò la tempistica. Era la battaglia contro una sorta di 'cupola', che guarda caso nel mondo del calcio ricompare periodicamente. Ancora oggi si parla del gol di Turone, che per me fu una 'prova generale': non sempre con la squadra più forte vinci il campionato. Poi la storia si ripete e noi riscriviamo sempre gli stessi editoriali, parlando di 'aiutini'...".
Essere editore e dirigere La Roma, che "nonostante la crisi del settore, doveva continuare a vivere perché è un pezzo di storia della società" gli permette di stare al passo coi tempi, perché altrimenti veniva chiamato "soprattutto per un discorso di 'amarcord' legato alla presidenza Viola. Oggi c'è la soddisfazione di essere tornati competitivi e di essere stati fino a poco tempo fa i rivali, ancora una volta, della Juve".

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