Breaking News

Sopravviverà la giustizia sportiva al 2014?

condividi su facebook condividi su twitter Redazione 06-10-2014 - Ore 18:27

|
Sopravviverà la giustizia sportiva al 2014?

In pochi  ricorderanno un saggio scritto da Andrej Amalrik, un giovane storico, nella primavera del 1969. Già condannato ad un anno di lavori forzati nel 1965, a seguito di quanto sostenuto nel suo scritto “Sopravviverà l’Unione Sovietica al 1984?”, il dissidente venne nuovamente condannato a tre anni di lager a regime forzato. A molti era parso un pazzo a fare quelle previsioni, pochi mesi dopo i carri armati a Praga, con gli USA sempre più debilitati dalla loro sporca guerra in Vietnam, con il maggio del ’68 che aveva seminato, in profondità, tutta la contestazione possibile al sistema liberale-borghese.

Eppure l’analisi storico-economica condotta da Amalrik, che prevedeva l’implosione del regime sovietico entro 15 anni, si rivelò sostanzialmente esatta, con un errore di soli 4 anni (nel 1989 cadde il muro di Berlino, venne via la cortina di ferro e l’URSS fu costretta a concedere l’indipendenza alle repubbliche che la componevano).

Cosa c’entra il giovane dissidente di oltre quarant’anni fa con la giustizia sportiva, si chiederà qualcuno?

C’entra, invece, perché se si tornasse indietro, solo fino al 2003, a quella che venne definita l’estate dei Tribunali Regionali Amministrativi (con il Catania e la Federcalcio ad uscire una volta vincenti ed una volta soccombenti), ci si troverebbe di fronte ad una legge dello Stato, la 280/2003, che sanciva in via definitiva la legittimità della giustizia domestica in ambito sportivo, riservando alla Giustizia Amministrativa del TAR Lazio il solo controllo di legittimità dei provvedimenti.

Una vittoria per tutti quelli che (modestamente anche per lo scrivente) ritenevano che le controversie di carattere sportivo dovessero rimanere in tale ambito ed in tale ambito essere risolte.

Certo, però, che la giustizia sportiva (non è un errore lo scrivere con la g minuscola, è una necessità dovuta agli accadimenti) avrebbe dovuto dimostrare di essere in grado di meritarsi questa sua autonomia, questa sua esclusiva, pure andando ad incidere su interessi economica e sociali particolarmente significativi.

Ad un’analisi neanche tanto approfondita, invece, il risultato appare francamente mortificante.

Per anni, in ambito federcalcio, chi ha avuto modo di seguire le vicende dei vari procedimenti legati al filone di indagini provenienti dalla Procura della Repubblica di Napoli, di Bari, di Cremona, di Potenza, è rimasto a dir poco perplesso davanti ad un doppio, triplo, quadruplo binario in relazione alle conseguenze disciplinari poste a carico dei tesserati e delle società.

I vari codici di giustizia sportiva delle singole federazioni sono stati reiteratamente riformati, tanto da creare sconcerto negli interpreti e nell’opinione pubblica, fino ad arrivare al recente codice di giustizia sportivo emanato dal CONI che, se possibile, è riuscito a creare ancora maggiore confusione.

Da agosto 2014, però, la giustizia sportiva è riuscita a superarsi, dimostrando, definitivamente, di non meritare quell’autonomia, quella delega che lo Stato le aveva conferito.

Si è passati dal ritenere “oggettivamente e soggettivamente irrilevante sotto il profilo disciplinare” la frase pronunciata dal presidente in pectore Tavecchio a proposito di Optì Pobà (in molti ancora si chiedono del perché l’autore si sia sentito in dovere di chiedere 100 volte scusa, se la frase fosse “oggettivamente” irrilevante), allo scoprire (stando ai rapporti dei NAS dei Carabinieri) che i controlli anti-doping predisposti nei confronti degli atleti in odore di medaglia per le Olimpiadi di Londra fossero una sorta di rete a larghissime maglie, nella quale in molti riuscivano a sottrarsi al controllo (come non ricordare lo scandalo del laboratorio anti-doping dell’Acqua Acetosa del 1998?), per finire in questa tardiva estate con i 16 mesi inflitti  al Presidente del CONI Giovanni Malagò, da una commissione giudicante di quella FIN il cui presidente, dal 2005, battaglia senza esclusione di colpi con il Malagò stesso; il tutto, in barba al parere offerto da quella pomposamente definita come l’autentica Cassazione dello sport.

E’ evidente che, in questo modo, viene totalmente a mancare la certezza del diritto, vengono totalmente meno le regole che dovrebbero governare l’intero movimento sportivo.

Forse è il momento in cui lo Stato si  riappropri di quell’autonomia che lo sport ha dimostrato di non meritare, istituendo un Tribunale dello Sport alle esclusive dipendenze del CONI o di un organo terzo, creando un corpo specializzato (sull’esempio del NAS) per le indagini relative alle frodi sportive, al doping ed alle violazioni disciplinari più significative, lasciando alle federazioni solo la competenza residuale.

L’obiezione a questa proposta è evidente: se i tempi saranno quelli dello Stato, le decisioni avverranno in tempi biblici! Vero, ma fatta salva la considerazione che anche in ambito federale i tempi si sono allungati a dismisura, almeno non si assisterà più a comportamenti ondivaghi, contraddittori, ritorsivi o privi di qualsivoglia fondamento giuridico. Al limite, si criticheranno gli autori delle decisioni, senza sospettare, a torto o a ragione, l’influenza del potente di turno.

Avv. Mario Stagliano

(già vice-capo dell’ufficio indagini federcalcio) 

 

commentiLascia un commento

Nome:  

Invia commento

chiudi popup Damicom