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La voglia di Stadio del Calcio Italiano

condividi su facebook condividi su twitter Redazione 14-03-2015 - Ore 12:00

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La voglia di Stadio del Calcio Italiano

Far crescere il fatturato, sottrarsi alla schiavitù dei diritti tv e controllare meglio i propri tifosi, accelerando la trasformazione da sport a spettacolo: i club della Serie A sono sempre più convinti che la strada maestra per ottenere questi risultati sia la costruzione di un moderno impianto di proprietà, come hanno fatto prima le squadre inglesi e poi la Juventus. Ambizioni costrette a fare i conti però con mille ritardi e difficoltà, come dimostra il caso della Roma i cui sogni di un "nuovo Colosseo" sono ancora in alto mare.

L'isola del tesoro per voltare pagina di MATTEO PINCI

Vecchi e fatiscienti, cattedrali nel deserto scomode divenute negli anni zona franca per i violenti di tutta Europa. Chi cercasse un'istantanea per rappresentare la crisi del calcio italiano potrebbe facilmente scegliere l'immagine di un qualsiasi stadio del nostro paese. Per questo, da anni, tra i club di serie A - ma non solo - è iniziata la corsa alla realizzazione di uno stadio di proprietà. Un'isola del tesoro ancora inesplorata, almeno in Italia:Emirates Stadium, Allianz Arena, sono questi i modelli a cui tutti, più o meno aspirano. Stadi fortezza ma anche poli di intrattenimento, centri commerciali e negozi, musei e uffici, aree ristoro e parchi tematici, per un business multimilionario in grado di far lievitare il fatturato dei club stritolati oggi nella dipendenza dai diritti tv.

La prima a muoversi fu la Juventus: 125 milioni per sostituire il vecchio Delle Alpi con lo Stadium (20 per i 355mila metri quadrati dell'area), con un incremento dei ricavi da gare del 174%. Gli analisti parlano di un'incidenza media sul fatturato di un club che può variare dal 20 al 40%, già al primo anno con il nuovo stadio gli incassi dei bianconeri erano cresciuti del 24%. Ma c'è anche chi come la Roma è convinto di poter raddoppiare quel dato. E per questo ha presentato un progetto monumentale da oltre un miliardo di euro, di cui 320 milioni per interventi pubblici. Oltre allo stadio da 52mila posti, però, il piano prevede anche 245 negozi, ristoranti (in tutto, 6mila nuovi posti di lavoro), hotel extralusso e soprattutto un discusso "business park": 920mila metri quadri di uffici, concentrati nelle "torri gemelle" disegnate dall'archistar Usa Daniel Libeskind, un'operazione edilizia per finanziarie i costi del progetto.

Qualcosa di simile, realizzando però case e non uffici insieme all'impianto, ha fatto l'Arsenal all'inizio degli anni Duemila: circa 500 milioni la spesa per l'Emirates e indebitamento di 310 milioni circa (il resto li ha coperti lo sponsor). Ma tra il 2002 e il 2010 l'area residenziale ha generato un fatturato di 391 milioni di sterline con un utile di 69, e tra il 2008 e il 2010 il club ha incrementato di circa 60 milioni i ricavi ogni anno: il segno tangibile che il modello Emirates funziona eccome. Come d'altronde l'Allianz Arena, che garantisce al Bayern entrate nette per 53-54 milioni all'anno. Numeri che hanno convinto persino il Real a progettare il Nuevo Estadio Santiago Bernabeu, impianto da 400 milioni destinato a incrementare i ricavi del club del 30%, o almeno questo promette.

Ma perché l'Italia è il fanalino di coda d'Europa quando si parla di stadi di proprietà? Intanto, fino al dicembre 2013 mancava una norma che regolamentasse il percorso e l'iter burocratico rappresentava un ostacolo insormontabile. Ora c'è: entro 9 mesi Comune e Regione devono pronunciarsi sullo studio di fattibilità: unico dogma, l'impedimento ad associare il progetto alla realizzazione di nuovi quartieri. Un monito a chi, come Claudio Lotito, aveva pensato di usare lo stadio come grimaldello per costruire 12 mila unità abitative. Poi però c'è il problema dei costi: sponsor che coprano gli oltre 300 milioni necessari a costruire un impianto (e le strutture annesse) è complicato anche per club come il Milan.

Eppure i rossoneri hanno già avviato il loro progetto per l'area dell'Expo: costo circa 320 milioni, dovrebbe far impennare i ricavi del 20-25%, secondo gli studi dell'ad Barbara Berlusconi, generando 1000 posti di lavoro per la realizzazione e 500 una volta diventato operativo. Immaginifico il sogno fiorentino: a Firenze i Della Valle vorrebbero trasformare i 50mila mq dell'area Mercafir in un impianto da 40mila posti con museo d'arte moderna, hotel e centro commerciale, garantendo lavoro a 3mila persone. C'è poi chi il proprio progetto non riesce a farlo decollare: Lotito girava anni fa con il plastico dello Stadio delle Aquile nel portabagagli, ma, oltre ai problemi di cui sopra, il progetto non fu approvato perché pensato su una zona alluvionale, la Tiberina.

L'Inter di Thohir e il Napoli di De Laurentiis, poi, più che realizzarne uno nuovo di impianto vorrebbero valorizzare quelli esistenti, San Siro e San Paolo. Ma lo stadio non è esclusiva delle big: la piccola Udinese acquistando per 99 anni i diritti dell'area (4,55 milioni) sta trasformando il Friuli in uno stadio hi-tech di proprietà: un affare da 28 milioni a cui aggiungerne altri 20 per costruire l'immancabile area commerciale, ristoranti e persino un pronto soccorso. Non sarà l'Emirates, ma è abbastanza per iniziare a sognare.

 

I progetti dei club più importanti
Progetto Costo previsto Posti stadio Accessori Ricavi
MILAN 320 milioni 48mila albergo, liceo sportivo, parchi giochi, ristoranti Atteso un aumento dei ricavi del 20-25% e 500 posti di lavoro a regime
FIORENTINA 300 milioni 40mila un outlet delle grandi firme della moda, due alberghi, ristoranti, un polo dell'artigianato fiorentino di qualità, giardini e vialetti per le famiglie, un museo di arte contemporanea Attesi 10 milioni di ricavi in più all'anno e 3mila posti di lavoro a regime
ROMA 1 miliardo e 200 milioni 52mila estendibili a 60mila polo del divertimento, negozi, uffici e ristoranti Attesi aumento del fatturato del 50% e 3mila posti di lavoro a regime.

La lezione della Juventus di MAURIZIO CROSETTI

La Juventus ha saputo costruire il nuovo sopra il vecchio, senza cancellarlo del tutto ma usandolo come base, come "radice": quasi una metafora, e non solo un’operazione di architettura e ingegneria legata al nuovo stadio. Infatti, lo Juventus Stadium (a tre anni e mezzo dalla sua inaugurazione, manca ancora un nome commerciale) sorge nel punto esatto in cui venne costruito il Delle Alpi in occasione del mondiali di Italia 90. Zona periferica, le Vallette: case popolari, il carcere, il mattatoio. Non proprio un luogo dove passarci le ferie, anche se l’impianto bianconero, il primo privato in Italia tra i club professionistici, ha creato un bel po’ di movimento: merito, anche, dell’area commerciale costruita proprio a ridosso dello stadio, e merito del museo della Juventus, tra i più visitati d'Italia. La casa della Juve è una tana dove i campioni d’Italia vincono praticamente sempre o quasi. Il primo risultato, dunque, non è economico ma sportivo: le due cose, ovviamente, sono legate, perché nello sport professionistico più vinci e più incassi, più conquisti punti e più guadagni. Ed è chiaro che l’operazione immobiliare e finanziaria decisa dalla Juventus già molti anni fa, all’epoca della Triade (Moggi, Giraudo e Bettega) e delle memorabili liti con il comune di Torino, approvata in delibera dall’amministrazione civica il 18 marzo 2008 e concretizzatasi nell’impianto inaugurato la sera dell’8 settembre 2011, è stata sin dall’inizio vista come una specie di cassaforte e di "zecca": perché nel nuovo stadio si "coniano punti", ma soprattutto denaro fresco. Già nel suo primo anno di esercizio, lo Juventus Stadium portò un incremento dei ricavi di 23,5 milioni di euro, con un risultato netto addizionale di 9. Una crescita esponenziale dipesa dall’aumento dei posti a sedere, del costo di biglietti e abbonamenti e dell’offerta complessiva di servizi, visto che l’impianto ospita anche 8 ristoranti e 20 bar. Anche se l’Italia resta in clamoroso ritardo rispetto all’Europa nella costruzione di stadi privati, l’idea è quella di affrancarsi progressivamente dai ricavi provenienti dai diritti televisivi e garantire, nello stesso tempo, il rispetto della normativa Uefa sul "fair play finanziario". Il cammino è in salita, però la Juventus è una specie di faro per tutti gli altri club. I numeri lo dimostrano: lo Juventus Stadium produce oggi una media di 45,8 milioni di ricavi annui, con un contributo al risultato di esercizio di circa 27 milioni di euro (al lordo delle tasse) che cresce fino a 33,3 milioni di euro in ottica fair play finanziario. Senza entrare in tecnicismi esasperati, lo stadio genera circa 23 milioni di euro di cassa operativa, che nel periodo di restituzione del finanziamento devono scontare circa 6,5 milioni di uscite (rate capitale e interessi: funziona, più o meno, come per il mutuo di casa vostra), ma garantisce comunque una media di 16,5 milioni di euro all’anno di disponibilità netta. Non moltissimo se paragonato ai bilanci dei club inglesi e tedeschi, un abisso rispetto alle società italiane concorrenti e ferme al palo. Visto il successo di pubblico, e visto che lo Juventus Stadium è quasi sempre esaurito, ci si chiede se la Juventus non abbia sottostimato l’operazione, quando decise di costruire un impianto tutto sommato piccolo, con appena 41 mila posti a sedere. Forse sì, anche se un progetto più faraonico avrebbe richiesto un impegno economico che il calcio italiano attuale, Juventus compresa, avrebbe faticato a sostenere. La strada tracciata dalla Juve, insomma, è quella giusta, anzi è l’unica possibile per non essere strozzati dalla crisi e non dipendere in tutto e per tutto dalle tv. Ma la distanza da colmare rispetto ai principali club stranieri è notevole: si pensi che il Manchester United incassa, grazie allo stadio, il triplo rispetto alla Juventus, e cinque volte più del Milan. Cifre impressionanti se si considera che in Inghilterra non si spende mai più di 70 euro a biglietto, e in Germania mai più di 57, mentre la media dei tagliandi più cari è in Italia di 112 euro. Dunque, se si guadagna molto meno anche con biglietti molto più cari, vuol dire che stiamo sbagliando i conti. E che lo stadio di proprietà diventa puro ossigeno. Non solo una risorsa in più, ma la condizione essenziale per la sopravvivenza.

Dubbi e ritardi per il Colosseo giallorosso di DANIELE AUTIERI

"Roma non è stata costruita in un giorno", dicono gli americani. Una lezione che ha imparato bene James Pallotta, il patron della As Roma, che dopo aver lanciato la palla avanti sulla costruzione dello stadio, si trova a dover fare i conti con un nuovo intoppo. Nessuno finora lo ha detto pubblicamente, ma la richiesta dell'Assemblea capitolina romana di visionare un progetto definitivo delle opere previste prima di riconoscerne la pubblica utilità, ha sollevato non poche difficoltà al costruttore Parnasi, che con la sua Eurnova si è aggiudicato l'onere e l'onore di tirare su il "Colosseo" della Roma. Le questioni in ballo adesso sono due. La prima riguarda i tempi: il costruttore ha promesso di presentare in Campidoglio i progetti definitivi entro marzo. Da allora il Comune avrà un mese per studiare tutte le carte e passare la palla alla Regione, dove il progetto potrebbe giacere per altri sei mesi. Seguendo questo calendario la posa della prima pietra non ci sarebbe prima della fine dell'anno, molto oltre i propositi di Pallotta.

La seconda questione, ancora più delicata della prima, riguarda l'onere finanziario di questo slittamento temporale, destinato a ricadere sulle spalle del costruttore Parnasi. Il presupposto su cui si basa il progetto stadio è semplice: l'investimento economico viene sostenuto dai capitali privati, mentre il Comune riconosce in cambio l'edificabilità di alcuni terreni su cui la Eurnova è pronta a costruire case e un enorme business park, un centro direzionale che dovrebbe ospitare attività commerciali di vario genere, oltre alle avveniristiche torri della banca Unicredit. I più critici parlano di un milione e duecentomila metri cubi di cemento di cui lo stadio è solo minima parte. Lasciando da parte le polemiche sull'opportunità di costruire il mega complesso nell'area di Tor di Valle, rimane in piedi una questione chiave: possono gli investitori del progetto sostenere un onere finanziario di oltre un miliardo di euro per lavori che rischiano di protrarsi nel tempo, facendo vedere i primi ritorni economici non prima dei prossimi due anni?

Le finanze di Parnasi. Ancora una volta, la risposta alla fattibilità finanziaria dello stadio è nei numeri. Eurnova, la società proprietaria dei terreni di Tor di Valle guidata da Luca Parnasi, ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio depositato) con una perdita d'esercizio di 31.380 euro (superiore ai 4.714 del 2012) e con un valore di produzione che supera di poco i 25 milioni di euro. A fronte di questi ricavi, i debiti accumulati superano i 31 milioni di euro, di cui 20,5 milioni nei confronti dei fornitori.
I partner finanziari di Eurnova nella partita stadio sono altre due società che fanno capo alla famiglia Parnasi: Parsitalia Real Estate e Parsitalia General Contractor. Analizzando i dati di bilancio, la prima ha chiuso il 2013 con 18 milioni di ricavi e 312mila euro di utile. Anche in questo caso i debiti sono elevati e ammontano a 56 milioni di euro. La maggior parte di questi (28 milioni) sono contratti verso le società controllanti, tra cui il gruppo Parsitalia srl, la holding della famiglia che ha un giro d'affari pari a 500 milioni di euro. Al 31 dicembre del 2013 il patrimonio netto della holding ammontava a 228 milioni di euro, mentre è pari a 301 milioni il monte debiti accumulato. Di questi, 109 milioni sono i denari che il gruppo deve alle banche, Unicredit e Monte Paschi su tutte. Il secondo partner di Eurnova, Parsitalia General Contractor, è l'altro colosso della famiglia Parnasi con un attivo patrimoniale di quasi 500 milioni di euro. Tuttavia, in questo caso più che negli altri, la situazione debitoria della società è complessa: all'ultimo bilancio depositato i debiti cumulati risultano pari a 254 milioni di euro, di cui 59 milioni verso i fornitori, 12 milioni verso le banche, e 136 milioni di acconti relativi agli anticipi ottenuti sulle commesse in corso di esecuzione. Tutto questo conferma la necessità di un gioco di squadra nella raccolta dei capitali, al quale potrebbero prendere parte, oltre che la Roma e il suo presidente James Pallotta, anche investitori stranieri al fianco delle banche italiane, già creditrici delle imprese di Parnasi.

Investimento e impatto. Per trasformare i progetti in realtà, James Pallotta e i suoi soci sono quindi chiamati a mettere sul piatto 1,2 miliardi di euro. Tanto costerà l'intera operazione immobiliare che dovrebbe però garantire un ritorno immediato nelle tasche dei suoi finanziatori. Ad oggi non è ancora calcolabile quanto Eurnova e le banche che la sostengono riusciranno ad ottenere dalla vendita degli immobili e delle strutture commerciali. Più sicuri sono i riflessi che ci saranno in termini di occupazione. Secondo i calcoli saranno infatti 3.000 i nuovi posti di lavoro creati nella fase di costruzione e altri 3.000 quando l'intera struttura sarà operativa.

Lo stadio. Il moderno "Colosseo" è stato progettato dall'archistar Dan Meis con l'idea di realizzare una struttura avveniristica capace di ospitare 52.000 persone, estendibili a 60.000 in caso di importanti eventi internazionali. I materiali scelti sono principalmente acciaio e vetro, ricoperti da un velo di pietre fluttuanti. L'idea è quella di riprodurre in chiave moderna le suggestioni dell'Anfiteatro Flavio, ma non solo. Il progetto, fortemente voluto da James Pallotta, prevede infatti che, oltre allo stadio, sia allestito un polo del divertimento aperto sette giorni su sette, dove sia possibile non solo assistere alle partite, ma anche fare shopping, mangiare, lavorare e molto altro.

L'area di Tor di Valle. Il progetto "stadio della Roma" non si esaurisce però nella struttura sportiva, ma prevede la realizzazione di una serie di opere che vanno dall'edilizia residenziale alle attività commerciali, fino a parchi e infrastrutture di vario genere come il prolungamento della linea metropolitana o la costruzione di un nuovo ponte sul Tevere. A indicare la soluzione Tor di Valle è stata la Eurnova che l'ha preferita su un panel di 82 alternative indicate da Cushman & Wakefield, società immobiliare di peso internazionale, controllata dalla finanziaria Exor della famiglia Agnelli. Una volta individuata l'area, Eurnova si è avvalsa del supporto strategico di Kpmg e Protos, due prestigiose società di consulenza che hanno contribuito a formulare l'analisi costi/ricavi su cui si basa il progetto. Tutto parte comunque dall'acquisto del terreno che diventa di proprietà dei Parnasi il 26 giugno del 2013 quando la Eurnova ne acquista la titolarità dalla Sais spa di Antonio Gaetano Papalia ad un prezzo di 42 milioni di euro. La Sais però fallisce nel maggio del 2014, quei soldi servono per pagare i creditori e oggi il pubblico ministero Mario Dovinola della Procura di Roma sta indagando, tra l'altro, sulla regolarità di quell'atto di cessione e sulla congruità dei termini del pagamento. Guardando tuttavia alla complessità dell'operazione, si tratta di inciampi superabili che non sembrano in grado di fermare il grande progetto dello stadio, semmai di rallentarlo. Non resta allora che aspettare, riponendo però nel cassetto il sogno di veder giocare sul prato verde del Colosseo moderno il capitano Francesco Totti.

Progetti faraonici, ma il Flaminio va in malora di DANIELE AUTIERI

Il futuro dello Stadio Flaminio non è mai iniziato. La storica struttura progettata dall'architetto Pier Luigi Nervi e inaugurata nel 1959, cade letteralmente a pezzi. Mentre Roma e Lazio si interrogano su come e dove costruire nuovi stadi di proprietà, proprio alle spalle dell'Olimpico e dell'Auditorium (progettato da un altro celebre architetto, Renzo Piano) il vecchio stadio da 40mila posti se ne va in rovina. Dimenticato da chi avrebbe dovuto gestirlo e da chi ne ha la responsabilità diretta. Nel giugno del 2012, dopo 15 anni, scade la gestione del Coni. Il Comune di Roma deve allora trovare un altro sponsor per tenere viva la struttura e dopo alcuni mesi sigla un accordo con la Federcalcio. Campidoglio e Figc elaborano un piano di interventi per rilanciare lo stadio. Costo previsto: tra i 12 e i 15 milioni di euro, oltre a una spesa annuale per la gestione di 800mila euro. Troppi soldi per le casse disastrate del Comune di Roma che riesce a stanziare appena 2 milioni di euro. Il piccolo regalo non basta a frenare la deriva. Alcuni lavori di restyling iniziano ma vengono bloccati dopo il ritrovamento di una necropoli romana. Ed è proprio questo, oggi, uno dei vincoli più pesanti che bloccano la rinascita dello stadio. La necropoli è una delle più grandi della città, si estende lungo il sottosuolo dello stadio, e rende di fatto impossibile intervenire profondamente sulla struttura dell'impianto. Il blocco imposto dalla Sovrintendenza, unito alla mancanza di fondi per gli investimenti, convincono anche la Federcalcio a defilarsi e a rinunciare alla gestione della struttura al punto che l'attuale assessore allo Sport del Campidoglio, Paolo Masini, è costretto a indire un nuovo bando per cercare sul mercato chiunque sia interessato a rilanciare il Flaminio. La partita dovrebbe chiudersi in questi giorni, ma le speranze sono poche e il tempo gioca contro il successo dell'operazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: cancelli divelti, palestre marcite, muri pericolanti, calcinacci che si staccano dalla struttura portante e cadono in terra. Un degrado lento ma inesorabile perché, negli ultimi anni, nessuno è riuscito a rianimare il moribondo. Dopo l'addio del calcio, ci ha provato il rugby, ma anche il Sei Nazioni ha deciso di traslocare nel luglio del 2011 facendosi ospitare dal più moderno Olimpico.

Quello che sopravvive della struttura lanciata alla fine degli anni Cinquanta è il colorato mercatino del martedì, il viavai di rom che popolano la zona e qualche clochard che abita le baracche di fortuna allestite sui prati di ingresso al vecchio stadio.

La nuova casa del Milan a caccia di fondi di STEFANO SCACCHI
Uno stadio di fronte alla sede. E' l'ultima idea del Milan che da alcuni anni esibisce la volontà di costruire un nuovo impianto. A insistere è soprattutto Barbara Berlusconi, amministratore delegato con delega anche a questa materia da dicembre 2013. Per ora la strada seguita è stata quella di approfittare dei bandi per la riqualificazione di aree cittadine. Dodici mesi fa quella dove tra pochi mesi si svolgerà l'Expo, bisognosa di una nuova sistemazione da novembre al termine dell'Esposizione universale. Adesso quella di due padiglioni della vecchia Fiera, zona Portello, a due passi dalla nuova sede del club e vicino allo svincolo della Milano-Torino e dell'autostrada dei Laghi.

Il Milan ha presentato la manifestazioni di interesse a fine gennaio. Progetto molto ambizioso: stadio da 48.000 posti, albergo, liceo sportivo, ristoranti, parchi giochi, effetto bolgia delle tribune per aumentare il sonoro del tifo. Il campo sarebbe interrato in modo da limitare l'impatto architettonico sul quartiere (i residenti però hanno già iniziato a rumoreggiare contro la prospettiva di un nuovo stadio). Il Comune di Milano accetta l'idea di un altro impianto in città oltre San Siro. La giunta ha già incontrato i rappresentanti del club rossonero, ma adesso occorre attendere la fine della gara voluta dalla Fiera. Solo se il Milan vincerà il concorso di idee - la decisione dovrebbe arrivare in Primavera - Pisapia e assessori valuteranno concretamente il progetto (per ora San Siro è prioritario in vista di Expo e finale Champions 2016).

Fino a questo momento è mancato l'elemento decisivo: il finanziatore in grado di far partire i lavori. Il Milan cerca un fondo capace di mobilitare risorse e affiancare il club nella costruzione (collaborazione diversa rispetto al naming right al quale potrebbe pensare Emirates come successo a Londra con la casa dell'Arsenal). Negli ultimi giorni qualcosa si è però mosso in questo senso: il presidente di Infront Italia, Marco Bogarelli, ha ammesso che i nuovi proprietari cinesi dell'advisor dei diritti tv, Dalian Wanda, gigante immobiliare, potrebbero essere interessasti anche al business dei nuovi stadi di Serie A, a partire da quello del Milan. Senza contare i movimenti relativi alla possibile cessione del club al magnate tailandese Bee Taechaubol.  Restano alcuni elementi di perplessità. Che fine ha fatto il progetto relativo all'area Expo annunciato poco più di un anno fa? Basta un'area di circa 60.000 metri quadrati - corrispondente esclusivamente alla superficie di San Siro edificio, senza dintorni: piazzale, parcheggi, area di pre-filtraggio - a ospitare uno stadio che vuole essere addirittura polifunzionale? Come potrà armonizzarsi a livello urbanistico questa struttura con la zona circostante, fatta di abitazioni e importanti vie di accesso a Milano, dove l'unica area di sfogo è l'ampio piazzale della nuova sede? L'idea del Milan è quella di privilegiare l'accesso allo stadio con i mezzi pubblici (Portello è una delle nuove fermate della metropolitana). Previsti solo due piani di parcheggi sotto le tribune, ma non posti all'esterno. Moltissimi tifosi però arrivano da fuori, soprattutto con i pullman dei club sparsi per tutto il nord Italia. Ma la decisione di Barbara Berlusconi è anche frutto di immagine e politica calcistica. La figlia del proprietario rossonero vuole mostrare che, dopo la nuova sede, il Milan si sta muovendo anche per uno stadio tutto suo.

Firenze, outlet e parchi nei sogni di Della Valle di ERNESTO FERRARA
Al centro uno stadio da 40 mila posti sul modello dell'Allianz Arena di Monaco, degno di una squadra da Champions League e costruito secondo i criteri della sostenibilità ambientale, con pannelli solari e recupero delle acque piovane per l'irrigazione del manto erboso. Tutto intorno quel che più conta, come nella vecchia pubblicità della caramella alla menta: una cittadella commerciale grande qualcosa come 50 volte un campo da calcio, con un outlet delle grandi firme della moda, due alberghi, ristoranti, un polo dell'artigianato fiorentino di qualità, giardini e vialetti per le famiglie intenzionate a passare i sabati, prima ancora che le domeniche, nell'area del nuovo stadio della Fiorentina. Così da produrre un aumento dei ricavi stimato in almeno 10 milioni di euro l'anno tra sponsor, merchandising e aumento dei biglietti. Calcio, sì, ma soprattutto business, quello che hanno in mente di fare i Della Valle alla Mercafir, quartiere di Novoli, periferia nord di Firenze, nei 50 ettari che oggi ospitano i mercati generali all'ingrosso della città e entro 4 anni potrebbero trasformarsi nel nuovo Eldorado per i patron della squadra viola. O chi per loro, visto che c'è chi ipotizza che in realtà il progetto di mister Tod's sia quello di ottenere dal Comune i permessi urbanistici per costruire il nuovo impianto con annessi spazi commerciali e alberghieri e poi dare in gestione l'affare ad un gruppo in grado di ripagare ai Della Valle nel giro di qualche anno i 300 milioni di euro di investimento. Certo, sempre che il progetto, presentato a Palazzo Vecchio a luglio scorso, decolli davvero. La legge sui nuovi stadi, che porta proprio la firma dell'ex deputato e oggi sindaco, Dario Nardella, dice del resto che si possono fare impianti sportivi, centri commerciali e pure ricettivi (basta evitare le case) sfruttando procedure sprint e anche su terreni pubblici (com'è l'area Mercafir) ma è vero che Comune e società viola sono ancora ben lontani da un accordo. Economico prima che tecnico. In fondo tutto ruota intorno agli affari, altro che cessione di Cuadrado. Se la Fiorentina vuole tornare competitiva sul mercato del calcio europeo ha bisogno di crescere: basta prendere la recente avversaria in Europa League, il Tottenham, oltre 50 milioni arrivati dal solo botteghino, ben 113 milioni dai diritti tv, e 50 dal commerciale. Cifre distanti da quelle della Fiorentina che nel 2013 ha fatto registrare 41 milioni dai diritti tv, 13 dal commerciale e la miseria di 7 dallo stadio.

Piccolo è bello, Udine e Sassuolo insegnano di COSIMO CITO
Small and beautiful, come a Reggio Emilia, a Udine, a Parma. Addio grandi cattedrali, addio Delle Alpi, addio San Nicola, addio al gigantismo borioso degli anni Ottanta. La modernità, nel calcio italiano, passa dal piccolo, dalla provincia, dalla funzionalità mini di stadi come l'ex Giglio di Reggio, oggi Mapei Stadium, il primo impianto di proprietà di un club mai costruito nel nostro paese. Era il 1994, la Reggiana mise i lucchetti all'antico Mirabello e si costruì quasi da sola uno stadio nuovissimo, all'inglese, senza pista di atletica, con tribune a ridosso del campo, a 3 km dal centro cittadino. 11 milioni di euro, fondi interamente privati, con una particolarità: 1026 tifosi della Reggiana sottoscrissero abbonamenti pluriennali per finanziarne la costruzione. In otto mesi lo stadio era fatto, bellissimo, funzionale. 30mila posti, un gioiello. Peccato non abbia portato troppa fortuna al club di Reggio, fallito, e alla società che lo costruì, la Mirabello 2000, fallita anch'essa. Lo stadio però è sempre rimasto vivo, con due ristrutturazioni, la costruzione di un centro commerciale, l'applicazione di norme di sicurezza come tornelli, telecamere a circuito chiuso e una forma primordiale della tessera del tifoso assai prima che diventassero obbligatori per legge. L'impianto oggi è di proprietà della Mapei, ospita il Sassuolo e, in affitto "politico", alla cifra simbolica di 60mila euro annuali, la Reggiana, attualmente alle prese con la Lega Pro.

Di fatto anche il Friuli di Udine, dal 2012, è uno stadio di proprietà di un club. L'Udinese lo ha "acquistato" dal Comune in concessione per i prossimi 99 anni, e ha immediatamente avviato un progetto di ristrutturazione che porterà alla cancellazione della pista di atletica - considerato, quasi sempre a ragione, da vent'anni il male assoluto per uno stadio di calcio - all'avvicinamento delle tribune al terreno di gioco, con demolizioni e ristrutturazioni che ridurranno (altro must) la capienza da 40mila ad appena 25mila posti. Sotto la falce della modernità cadrà anche il mitico COSMO, il maxischermo costruito dalla Panasonic nel 1984 in piena era Zico, per anni il terzo più grande al mondo e il più grande d'Europa. Il Friuli negli anni è stato anche terreno di sperimentazione per l'hawk eye, la goal line technology e, soprattutto, teatro di tanto ottimo calcio.

Piccolo e bello, come il Tardini di Parma, vero stadio-salotto, 30mila posti come a teatro, come al Regio, visibilità fantastica, erba sempre perfetta, eppure antico, costruito nel 1924 e ristrutturato appena due volte. Lì lo spettacolare Parma di Nevio Scala portò il grande calcio alla città, lì il misero Parma di Donadoni sta morendo di inedia, con un fallimento ormai quasi scontato (se ne discute il 19 marzo) e una ripartenza chissà da dove, chissà come. E il bellissimo impianto, di proprietà del Comune, potrebbe presto trovarsi senza squadra e senza tifosi, splendido e inutile. Come a lungo e per troppo tempo è stato il Sant'Elia di Cagliari, la cui fantozziana ristrutturazione, con tribune applicate al centro del vecchio catino, come una scatola di fiammiferi in un grande portacenere, ha costretto la squadra a girare l'Italia per giocare le sue partite casalinghe. Paradossalmente, nell'anno del ritorno, il Cagliari è a un passo dalla B. Il Sant'Elia, più che una storia italiana, è una storia all'italiana, un modello al contrario, una strada da non seguire, small and ugly.

Stanze tra gli spalti, l'ultima follia targata Realdi ALESSANDRO OPPES
Se davvero si tratta del miglior campionato del mondo (lo dice il ranking ufficiale, per il secondo anno consecutivo), logica è l'aspirazione a disporre dei migliori stadi del Pianeta. Non è un semplice maquillage, ma una vera rivoluzione architettonica quella che hanno lanciato i club della Liga, a cominciare - ovviamente - dai due più prestigiosi, Real Madrid e Barcellona. Ma ad avviare l'operazione svecchiamento sono state, già qualche anno fa, alcune società blasonate ma di medio livello. Per primo l'Espanyol, seconda squadra della capitale catalana che, una volta abbattuto il vecchio Sarriá e trascorso senza troppo entusiasmo un periodo di limbo all'Olimpico del Montjuic, ha finalmente visto nascere la sua fiammante struttura di Cornellà-El Prat, "Power8 Stadium" come si chiama ora: 40mila spettatori, tribune completamente coperte, autosufficienza energetica con l'impiego di pannelli solari, centro commerciale annesso. Un piccolo gioiello che ha aperto la strada agli stadi di nuova concezione, seguito a ruota dal nuovo San Mamés di Bilbao, inaugurato nel 2013 per rimpiazzare la centenaria e mitica "Catedral", abbandonata con qualche rammarico dai tifosi dell'Athletic, subito entusiasti però della loro nuova casa: anche in questo caso, come per Cornellà, una struttura di "categoria 4", la massima concessa dalla Uefa, una capienza che supera i 53mila spettatori, un centro d'innovazione sportiva e un altro di medicina sportiva, una pista sotterranea per l'atletica leggera, palestra, piscina, spa, centro fitness. un museo, un ristorante.

Stadi da vivere, per l'intera giornata e per tutti i giorni dell'anno. Con i conseguenti vantaggi economici per le società che, un tempo, vedevano limitati i loro introiti alla vendita dei biglietti e a un sapiente sfruttamento del merchandising. Da qui la fretta dei grandi club di portare a compimento le ristrutturazioni degli impianti. Una fretta che però trova un intoppo con ostacoli burocratici o difficoltà politiche legate alla modifica dei piani urbanistici. E' il caso del Real Madrid che, proprio nei giorni scorsi, ha dovuto bloccare il progetto di ampliamento del Santiago Bernabéu, un'opera da 400 milioni di euro che - parola di Florentino Pérez - dovrebbe trasformarlo nello "stadio più bello del mondo".

Lo stop è arrivato in seguito a una sentenza del tribunale supremo della capitale, in accoglimento di una denuncia presentata dagli eredi di una famiglia i cui terreni adiacenti allo stadio erano stati espropriati a metà del secolo scorso con l'obiettivo di realizzare zone verdi e vie di accesso alla struttura. Ora invece, con la variante al piano regolatore, si prevedono nuove colate di cemento per dare spazio a un centro commerciale e altri servizi nell'ambito del rinnovato Bernabéu. Pérez è convinto che il contenzioso si risolverà presto, ma bisognerà attendere almeno sino all'inizio dell'estate quando - dopo le amministrative del 24 maggio - Madrid avrà un nuovo consiglio comunale e una nuova giunta regionale. Solo a quel punto sarà, forse, possibile avviare per tappe - in un periodo di circa cinque anni - l'opera di completo ammodernamento che cambierà del tutto il volto di uno stadio la cui costruzione venne avviata 70 anni fa.

In base al progetto dello studio tedesco Gmp Architekten e dei catalani L35 e Ribas, il nuovo Bernabéu dovrebbe avere una capienza di 90mila spettatori, 5000 in più rispetto ad oggi, una copertura completa con tetto retrattile (che si aprirà in 15 minuti), un avveniristico guscio esterno fatto di megaschermi sui quali verranno proiettate immagini dei successi attuali e video celebrativi della storia dei campioni merengue. E ancora un grande centro commerciale, uno spaziosissimo parcheggio sotterraneo, ma la novità più spettacolare sarà l'hotel di lusso con vista sul campo di gioco: dalle stanze - magari distesi sul letto - sarà possibile vedere dal vivo attraverso un'ampia vetrata le partite del Real Madrid. Solo l'albergo, di 150 camere, dovrebbe generare utili per 5 milioni di euro l'anno. Altri 2 o 3 milioni verranno dal centro commerciale. La speranza del club è quella di arrivare a guadagnare intorno ai 52 milioni l'anno (contro i 40 attuali). Ma l'apporto economico più importante arriverà grazie all'accordo da capogiro con il fondo sovrano di Abu Dhabi, Ipic (International Petroleum Investment Company): si parla di 25 milioni l'anno per vent'anni, totale 500 milioni di euro. In cambio la società spagnola dovrà cedere qualcosa di "sacro", il nome dello stadio. Potrebbe chiamarsi "Abu Dhabi Santiago Bernabéu", o forse "Cepsa", che è la compagnia petrolifera spagnola di proprietà del fondo.

Un futuro in chiave araba anche per i rivali del Barça: l'attuale sponsor Qatar Airways, che già contribuisce con 30 milioni di euro l'anno alle finanze "blaugrana", potrebbe sborsare molto di più se la società catalana accetterà di affiancare il nome della compagnia aerea a quello del "Camp Nou". Di sicuro, ogni nuovo finanziamento sarà ben accetto considerato il cospicuo investimento previsto per la ristrutturazione dello stadio, approvata dieci mesi fa dai soci a larga maggioranza. Ci vorranno 600 milioni di euro: per un terzo risorse della società, un terzo verrà coperto con un credito bancario, 150 milioni saranno forniti dallo sponsor, il resto arriverà dalle attività del "Espai Barça" (negozi, ristoranti, eccetera).

I lavori verranno realizzati fra il 2017 e il 2021. Alla fine il Camp Nou avrà una capienza di 105mila spettatori (seimila in più rispetto a quella attuale), una nuova copertura, zone vip più estese, ristoranti con vista sul prato. Uno dei fiori all'occhiello sarà sempre il Museo del Barcellona, già oggi il più visitato della Catalogna e il terzo di Spagna dopo il Prado e il Reina Sofia. Il progetto prevede, accanto allo stadio, anche la realizzazione del nuovo Palau Blaugrana, un palazzo dello sport per 10mila spettatori.

Il terzo grande club della Liga, l'Atlético Madrid, si appresta invece a cambiare casa, abbandonando dopo mezzo secolo lo storico "Vicente Calderón", che verrà abbattuto per essere sostituito da due grattacieli circondati da un parco sulle rive del Manzanarre. I colchoneros si trasferiranno dal 2017 nel nuovo "La Peineta", concepito in un primo momento come stadio olimpico, ma riadattato alle esigenze del football dopo il triplo fiasco di Madrid nella corsa all'organizzazione dei Giochi. Anche in questo caso, una struttura all'avanguardia, per 70mila spettatori con tribune completamente coperte, zone commerciali, bar e ristoranti. Cambiamenti in vista anche per altre squadre della "primera división": dal Valencia, che ha difficoltà a portare a compimento i lavori per il nuovo "Mestalla" (bloccati da tempo per i costi eccessivi), alla Real Sociedad che, con una spesa di 43 milioni, si appresta a rinnovare profondamente il vecchio "Anoeta" di San Sebastián portandone la capienza a 43mila spettatori.

Pugno di ferro e lusso, ecco il modello inglesedal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI
Se un inglese vede le immagini di uno stadio di calcio italiano, con ampi settori degli spalti vuoti, gli ultrà in curva che accendono fumogeni colorati e spesso episodi di violenza, rimane sbalordito. In Inghilterra la situazione è radicalmente diversa. Gli stadi sono sempre pieni: nell'ultima stagione le squadre di Premier League hanno avuto una percentuale di posti occupati durante il campionato del 98 per cento. In curva o in ogni altro settore non solo non si possono portare fumogeni, non entra niente, neanche una bandiera della squadra locale: in quello del Chelsea a Londra, per esempio, campeggiano soltanto due striscioni, allestiti dal club, contro il razzismo nel calcio. E gli episodi di violenza sono pressoché scomparsi, nonostante gli impianti siano senza inferriate o altre barriere divisorie tra il pubblico e il campo di gioco, e tra i diversi settori dello stadio stesso per tenere separati i tifosi. Se si aggiunge che gli stadi inglesi sono confortevoli, accoglienti e moderni come un hotel a cinque stelle, e che vengono frequentemente sfruttati commercialmente non soltanto il giorno della partita ma pure nel resto della settimana, ci si rende conto che sono su un altro pianeta rispetto alla norma degli stadi italiani.

Non è sempre stato così. In Inghilterra, fino a un quarto di secolo fa, gli stadi erano  vecchi, dilapidati e teatro di un hooliganismo peggiore di quello nostrano. Ci sono volute due tragedie per voltare pagina: la strage dell'Heyselnel 1985, quando ci furono 39 morti e 600 feriti durante la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, a causa dello sfondamento delle reti di recinzione da parte degli ultrà, un dramma che avvenne nello stadio di Bruxelles ma di cui fu ritenuta in gran parte responsabile la tifoseria inglese; ela strage di Hillsborough nel 1989, in cui 96 tifosi persero la vita nello stadio di Sheffield durante la semifinale di Coppa d'Inghilterra tra Liverpool e Nottingham Forest, il più grave incidente nella storia del football inglese.

I due eventi portarono a nuove leggi e a una completa trasformazione del calcio nel paese che ha inventato questo sport. Fu vietata l'introduzione di alcolici negli stadi. La magistratura ebbe mandato di interdire la presenza di soggetti ritenuti violenti, costringendoli a rimanere a casa nel giorno dei match e a firmare la loro presenza presso una stazione di polizia. Le società furono obbligate a modernizzare gli stadi, eliminando le barriere tra il campo e gli spalti, che secondo gli psicologi contribuivano ad accumulare le tensioni negative che sfociano in violenza, e sostituendo le gradinate con comode poltroncine. Gli spettatori non arrivano più ore e ore prima di un incontro, avendo il tempo di far crescere il tifo a livelli esplosivi, ma ci arrivano all'ultimo momento, avendo il posto prenotato, come per andare a teatro. E la sensazione è appunto quella di entrare in un teatro o in un cinema, accompagnati al proprio posto da uno steward in giacca rossa, dipendente del club ospitante, che sarà il primo ad avvertire lo spettatore in caso di intemperanze: se continui così, verrai espulso dallo stadio, provvedimento che le forze di polizia discretamente presenti fuori dallo stadio sono pronte a fare eseguire.

Tutti gli stadi sono stati privatizzati. Molti hanno al proprio interno splendidi bar, caffè, ristoranti e in qualche caso anche un albergo, oltre a parcheggi sotterranei per giocatori, dirigenti, accompagnatori. Un settore Vip offre salette per seguire la partita cenando con sontuosi buffet e calici di champagne, con la possibilità di rivedere le azioni su monitor. Naturalmente in tutto lo stadio è vietato fumare. I tifosi ospiti vengono fatti accomodare in sezioni separate dello stadio: quando la partita finisce, se ne vanno per primi o per ultimi, tutti insieme, scortati da steward e polizia. All'esterno dello stadio, ormai più che altro a scopo preventivo, staziona un distaccamento di poliziotti a cavallo - su immensi quadrupedi, è il caso di specificare, e basta vederli per farsi passare qualsiasi cattiva intenzione. Gli eventuali facinorosi rischiano la peggiore condanna possibile per un tifoso: il divieto di venire allo stadio per diverse giornate, per un'intera stagione o addirittura per tutta la vita. Insomma, non è che gli ultrà inglesi siano più buoni e disciplinati di quelli italiani: ma un sistema di regole ferree li ha messi in condizione di non nuocere più. Va aggiunto che le società hanno fortemente aumentato i prezzi dei biglietti, che i club più importanti vendono ormai quasi esclusivamente in abbonamenti stagionali, garantendosi così il tutto esaurito. Il livello socio-economico del pubblico è cambiato. I tifosi delle periferie degradate, quel sottoproletariato urbano, talvolta mescolato con la piccola delinquenza, da cui provengono gli hooligans più violenti, deve ora accontentarsi di vedere le partite nei pub: attorno ai quali, non a caso, si dispone ora un intenso controllo di polizia. Ma in un pub non possono entrare migliaia di persone. Tenere a bada decine o qualche centinaio di avventori è più facile, per le forze dell'ordine. Infine lo stadio viene utilizzato a tempo pieno, tutta la settimana. Ci sono visite guidate per turisti e tifosi, feste di compleanno per bambini, pranzi, cene, conferenze. Il nuovo stadio di Wembley, dove gioca la nazionale inglese, è diventato un business, attorno al quale è sorto un nuovo quartiere degli affari, dello shopping, della ristorazione, rigenerando un'area intera della città. Il segreto per eliminare la violenza negli stadi, riempirli di spettatori e rafforzare economicamente i club, insomma, non è un segreto: è una formula sperimentata, messa a punto dagli inglesi e ormai imitata da molti altri paesi in Europa. Volendo, potrebbe farlo anche l'Italia.

 

Fonte: inchieste.repubblica.it - Daniele Autieri, Cosimo Cito, Maurizio Crosetti, Ernesto Ferrara, Enrico Franceschini, Alessandro Oppes, Matteo Pinci e Stefano Scacchi

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