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Capello: «Pasolini, il Mago Van Basten, Totti... Compio 70 anni e sorrido alla vita»

condividi su facebook condividi su twitter Redazione 11-06-2016 - Ore 08:12

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Capello: «Pasolini, il Mago  Van Basten, Totti... Compio 70 anni  e sorrido alla vita»

GAZZETTA DELLO SPORT - BOLDRINI Il 18 giugno 1946, il primo presidente della Corte di Cassazione, Giuseppe Pagano, legge i risultati definitivi del referendum del 2 e 3 giugno: 12.717.923 voti Repubblica, 10.719.284 Monarchia. Nasce la Repubblica italiana. A Pieris, in provincia di Gorizia, nell’estremo Nord-Est del Paese, con la questione-Trieste ancora aperta, nasce Fabio Capello. Il 1946 è un anno chiave della nostra storia e Fabio Capello è un testimonial perfetto dei 70 anni di storia dell’Italia, sorta dalle ceneri di una guerra devastante, di un ventennio di dittatura fascista e della lotta partigiana. Il lago di Lugano è ad un passo. Sullo sfondo, le montagne. Capello ha scelto la Svizzera come campo base. Oggi a Marsiglia si sfidano le nazionali che ha allenato: Inghilterra e Russia.

Il bilancio di questi settant’anni?

«Se guardo da dove sono partito, non posso che sorridere alla vita. Lasciai casa a quindici anni. A quei tempi, da Pieris a Ferrara cambiava il mondo. I rapporti con la famiglia erano due lettere e una telefonata la settimana. Dividevo l’appartamento con Reja: siamo legati da un’amicizia fortissima. Figlio di Guerino, maestro elementare, non potevo trascurare la scuola, ma ad un certo punto cominciai a perdere colpi. Gli altri compagni della Spal mollavano, mentre io ero rimasto l’unico a studiare. Mio padre colse qualcosa del mio disagio al telefono e venne a trovarmi a Ferrara. Mi disse una parola che sarebbe diventata la bussola della mia vita: provaci. Superai il momento di crisi e mi diplomai. Nel calcio la lezione di mio padre mi è servita ad affrontare i problemi legati a un infortunio. Mi ruppi il menisco del ginocchio sinistro in uno Spal-Milan e negli anni Sessanta un malanno come questo poteva spezzare una carriera. Fui operato a Roma dal professor Rampoldi che mi disse: “Se vuoi continuare a giocare, rinforza i muscoli”. La prima terapia furono le passeggiate al mare, in acqua. La seconda fu la scarpa di ferro di Jair. Anche lui era finito sotto i ferri e aveva scoperto questo marchingegno per rivitalizzare i muscoli».

La carriera da giocatore?

«La Spal fu una buona palestra. Roma mi formò come uomo e come calciatore. Juve e Milan furono le squadre dei successi».

I momenti chiave?

«Sono stato la cavia delle innovazioni. Con la Roma perdemmo l’accesso in finale di Coppa delle Coppe nel 1970 per un regolamento assurdo. Nella gara di ritorno in Polonia in casa del Gornik Zabrze pareggiammo 2-2, ma il gol di Scaratti nei supplementari non fu considerato doppio perché la regola valeva solo nei tempi regolari. Al replay pareggiammo ancora e fummo eliminati dopo il lancio della monetina. Dopo quella maratona assurda, modificarono le regole. Da allenatore la delusione più profonda l’ho provata con l’Inghilterra: il gol di Lampard negato contro la Germania nel Mondiale del 2010. Anche in questo caso, quell’ingiustizia portò all’adozione della tecnologia».

Le fortune della sua vita?

«La salute è un bene prezioso. Lo capisci solo quando vai avanti con gli anni. L’altra fortuna è mia moglie Laura. Mi ha aiutato a migliorare la cultura. Adora viaggiare e insieme abbiamo girato il mondo».

I viaggi indimenticabili?

«Messico, Egitto, Perù, Vietnam, Cambogia. La sorpresa è stata la Cambogia. Decidemmo di andare laggiù sfogliando un depliant in aereo e quando ci ritrovammo di fronte al più grande sito archeologico dell’Asia, restammo sbalorditi».

Chi la indirizzò verso la pittura?

«Italo Allodi ai tempi della Juventus. Consigliava i calciatori di investire nei quadri: l’arte non muore mai, diceva».

Gli amici di questi 70 anni?

«Il nostro è un ambiente nomade, i contatti restano spesso in superficie, ma Reja e Zoff sono amici veri».

Moggi, Giraudo, Baldini: come è riuscito ad andare d’accordo con dirigenti così diversi?

«Moggi ha governato il calcio: Ibrahimovic e Cannavaro sono i suoi capolavori. Giraudo è stato il primo in Italia ad avere grandi strategie extracalcistiche. Con Baldini abbiamo trovato la condivisione degli interessi culturali. Con lui sfiorammo l’affare che avrebbe potuto cambiare la storia della Roma: la cessione al gruppo russo».

Saltò per colpa della politica o per altre ragioni?

«I motivi furono diversi dalla politica».

Fu quella delusione ad allontanarlo dalla Roma?

«L’addio alla Roma fu inevitabile. Il mio ciclo era finito. Ma non fu una fuga. Il contatto con la Juve nacque grazie a Giorgio Tosatti e fu tutto molto rapido».

Agnelli, Berlusconi e Sensi: i presidenti italiani della sua carriera da allenatore.

“Agnelli aveva fascino e parlava dal pulpito. Berlusconi è stato geniale e si poneva con i suoi dipendenti come l’imprenditore che si rimbocca le maniche. Sensi è l’uomo al quale sono contento di aver dato la gioia dello scudetto».

Quante volte ha sfiorato l’Inter?

«Quattro, ma chiudiamo qui il discorso».

Il club dove si è sentito a casa?

«Al Milan sono stato benissimo. La gioia per lo scudetto di Roma è stata particolare. A Madrid vincere il titolo nel 2007 è stato qualcosa di speciale».

La partita perfetta?

«Il 4-0 al Barcellona nella finale di Champions del 1994».

Quella da dimenticare?

«La sconfitta nella finale di Champions con il Marsiglia».

Il più grande talento allenato?

«Van Basten. Poi Ibrahimovic, Totti, Maldini, Baresi, Raul».

Il più inespresso?

«Cassano».

I colleghi?

«Helenio Herrera, Liedholm e Fabbri sono stati i maestri. Trapattoni è stato un pioniere: è stato il primo grande allenatore italiano ad andare all’estero. Sacchi ha aperto una strada».

I grandi personaggi frequentati in questi settant’anni?

«Pasolini era un intellettuale raffinato con una sfrenata passione per il calcio. Con Indro Montanelli ci fu un rapporto particolare. Pranzavamo spesso insieme e quando segnai il gol della prima vittoria dell’Italia in Inghilterra mi regalò un libro con la sua dedica. Piero Tosi, costumista italiano e premio Oscar, è un uomo straordinario. Poi Enzo Jannacci, Lino Toffolo e Diego Abatantuono».

La città più bella?

«Ho girato il mondo, ma nessun posto possiede la bellezza di Roma. Il fascino millenario dei suoi monumenti è unico. Quando giocavo, dopo cena portavo gli amici ad ammirare i Fori. Fa male al cuore vedere come è stata ridotta».

Una passione?

«La politica. Sono disorientato dal caos. Serve un cambio di passo generale. Roma è lo specchio del degrado».

Un messaggio?

«Voglio dire ai genitori: non mettere pressione sui vostri figli, lasciateli divertire. Ho un messaggio anche per i giovani: abbiate coraggio e andate a cercare lavoro anche all’estero. Non aspettate a casa».

Fonte: Gazzetta dello Sport - S.Boldrini

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