Rassegna stampa

Il viaggio di Di Francesco “Dalla spiaggia al Sassuolo l’isola felice degli italiani”

condividi su facebook condividi su twitter Redazione 23-10-2015 - Ore 08:15

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Il viaggio di Di Francesco “Dalla spiaggia al Sassuolo l’isola felice degli italiani”
LA REPUBBLICA - INTORCIA - Un vento sottile sparge foglie gialle lungo la cinta del vecchio stadio Enzo Ricci, fra i palazzi di Piazza Risorgimento, nel cuore della città. Qui il Sassuolo ha giocato in Serie C fino al 2008, oggi è il laboratorio della squadra di Eusebio Di Francesco, quarta in Serie A, rivelazione del campionato: i suoi colleghi accorrono per studiarlo e aggiornarsi.
Di Francesco, per il patron Squinzi siete da scudetto.
«Era una battuta, nella noia generale ha fatto notizia. Quel che non sapete è che ci siamo ritrovati alla fiera delle ceramiche e mi ha detto: ”Siccome mi hanno preso tutti sul serio, mi prendo sul serio anche io: ora le chiedo di vincerlo davvero, lo scudetto”. È stato simpatico».
Allora avete fissato un premio?
«Ma no, ho solo quello per la salvezza. Siamo al terzo anno di A, qui facciamo ancora le conferenze in piedi, siamo piccoli, stiamo crescendo a poco a poco, servono equilibrio e continuità. Non siamo una favola: vogliamo essere una bella storia. Un’isola felice in cui i giovani italiani possano crescere. Non un posto dove prendi i soldi e nessuno ti rompe le scatole».
Vi aspettano Milan e Juve.
«Meglio. A Empoli ci siamo ri-lassati e abbiamo perso. Contro le grandi, inconsciamente, alziamo l’attenzione. Oggi chi affronta il Sassuolo sa che non è una partita scontata, da tre anni facciamo risultato a Roma... ».
Chi vince lo scudetto?
«Mi auguro proprio la Roma, mio figlio e i miei nipoti non ci dormono la notte. La società ha fatto un ottimo mercato, i presupposti ci sono ma so anche che vincere nella capitale non è mai facile. Metto in corsa l’Inter, che ha tanti campioni che si stanno integrando e un allenatore abituato a stare lassù e a gestire pressioni. E ancora la Juve, che sta solo pagando il cambiamento ».
A proposito di soldi, lei è l’ottavo tecnico più pagato in A.
«Si vede che valgo. Ma il mio contratto si rinnova solo se ci salviamo. Qui ho avuto solo un momento di crisi, al primo anno di A: sei mesi di grande confusione, anche mia. Dopo l’esonero, sono stati i ragazzi a richiamarmi. Sono tornato senza sete di rivalsa e abbiamo ricominciato ».
Com’è diventato allenatore?
«Era l’ultima cosa che avrei pensato di fare. Ero team manager alla Roma, su richiesta di Rosella Sensi e Totti: non era il mio ruolo. Andai a gestire uno stabilimento balneare, Stella d’oro , a Pescara. All’alba pulivo la spiaggia col trattorino ed ero in pace col mondo, neanche sapevo i risultati delle partite. Dopo due anni il presidente della Val di Sangro mi offrì di collaborare: non avevo patentino, ero un biglietto da visita nei rapporti con i grandi club, ma è stata un’occasione. Me ne andai perché non condividevo l’esonero del tecnico Pierini. Che oggi è con me a Sassuolo. Ho scoperto il piacere di allenare solo a Coverciano, ho discusso una tesi sull’attacco nel 4-4-2 e una di psicologia sul ruolo degli amici e della famiglia».
Crede all’amicizia nel calcio?
«Beh, io ho tanti amici fra ex
compagni. I litigi nascono quando le mogli fanno casino».
Famiglia di ristoratori, la sua.
«I miei, Arnaldo e Silvana, da 43 anni hanno un ristorante-albergo a Sambuceto, il Pescara ci va in ritiro. I miei fratelli, Maurizio, Walter e Serena, lavorano lì. Io ho servito ai tavoli fino a 15 anni, dopo la scuola trovavo la divisa da cameriere già pronta. Non era un peso. È l’unico altro mestiere che avrei potuto fare, ho la terza media».
Le secca non aver studiato?
«Ho recuperato leggendo molto. Ultimamente Djokovic e Agassi, poi L’arte della guerra di Sun Tzu, Le undici virtù del leader di Valdano, Il calcio e l’isola che non c’è di Glerean. Ai miei ragazzi sconsiglio di interrompere gli studi. Mio figlio Federico gioca nel Lanciano e si è diplomato. La Germania permette ai giovani di studiare nei centri federali, da noi si va nei diplomifici per il pezzo di carta. La cultura è libertà, e un giocatore colto apprende più rapidamente. La prima riforma che farei è importare il modello tedesco ».
Perché si chiama Eusebio?
«Per l’asso portoghese: mio padre scelse per me il nome e il destino. Lui ama il ciclismo e il Bologna. Fino a 9 anni mi allenavo in sella, ma il calcio mi divertiva di più. Papà mi faceva accompagnare allo stadio a vedere il Pescara da uno dei camerieri dopo pranzo, arrivavamo sempre tardi...».
Lei cura molto il look: occhiali, barba, cravatta. E ha una società che le gestisce l’immagine.
«Gli occhiali li porto perché non vedo niente... Però sì, mi piace rappresentare bene me stesso e la società. Non dico che uno in tuta non lo faccia, ma io mi sento più a mio agio così, con questo stile. Per il resto, ho firmato da poco un contratto con la Football Capital, mi segue Bruno Carpeggiani, il mio procuratore da una vita».
Si definirebbe zemaniano?
«Devo molto a Zeman in termini di cultura sportiva e del lavoro, abnegazione, rispetto delle regole. Gli ho rubato qualche idea in attacco, ma non sono uno che scimmiotta. Quando lasciai Pescara, fui io a consigliare di prendere il mister al mio posto, era l’uomo giusto».
La sua idea di calcio?
«Far gol attraverso la verticalizzazione, odio il posesso sterile. E poi divertire gli altri divertendoci noi, a partire dagli allenamenti. Li facciamo a porte aperte fino al giovedì e da noi non volano droni. Abbiamo telecamere fisse ma le usano i miei collaboratori per la difesa, io preferisco l’occhio umano, guardo la squadra in faccia. E ai ragazzi provo a insegnare il rispetto per gli altri e l’importanza del dare. Sono stato in Kosovo con Tommasi, ho visto da vicino il male, la disperazione, l’egoismo della politica. Sono presidente di una onlus a Piacenza, organizziamo aste benefiche e iniziative nei paesi poveri, dall’Etiopia al Sudamerica. Noi siamo dei privilegiati, eppure siamo sempre orientati su noi stessi. Troppo».

Fonte: LA REPUBBLICA - INTORCIA

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