Stadio della Roma, Riccardo Viola: «Assurdo, dopo tre anni ancora senza certezze»
IL CORRIERE DELLA SERA - VALDISERRI - «Mio padre propose prima la Magliana e poi la Romanina, che oggi sarebbe come dire Tor Vergata. Iniziarono i problemi e le accuse di essere un palazzinaro, a cui rispose dicendo di essere semmai un ingegnere meccanico. Finì snervato dal sistema. A un certo punto chiese: ditemi voi dove si potrebbe fare. Erano i tempi del Pentapartito, c’erano certe dinamiche e non mi faccia dire altro. Alla fine, insomma, la politica diede lo stop a un’opera che sarebbe stata utile alla collettività. Lo stadio sarebbe stato finanziato principalmente con sponsorizzazioni e abbonamenti pluriennali».
Buongiorno, Riccardo Viola. Lei è figlio del presidente Dino, che portò alla Roma il secondo scudetto e un’idea di stadio che era avanti di decenni dentro il calcio italiano, e dirigente sportivo in quanto presidente Coni Lazio.
Ci spiega lei cosa sta succedendo con il progetto di Tor di Valle? La politica sta dando un altro stop?
«Mettere a paragone progetti diversi, in epoche diverse, è come dire se era più forte un calciatore degli anni Ottanta o di adesso. Non voglio attaccare l’attuale amministrazione ma una cosa mi fa restare sconcertato: come possiamo essere a questo punto dopo tre anni? Dovevano esserci ben altre certezze. Il problema è che questa città ha perso il suo senso di appartenenza e sta perdendo un’occasione dietro l’altra».
Dice che qui si chiamano palazzinari e altrove imprenditori? E che qui si dice no e altrove si fa l’Expo?
«Le dico che quelli della mia generazione uscivano dall’Olimpico, dopo aver visto il calcio, e andavano alla pallacanestro o alla pallanuoto. Cosa è rimasto dello sport a Roma? C’erano basket e pallavolo da scudetto, tre club competitivi di rugby, impianti, entusiasmo. Mio padre sognava una polisportiva e un impianto fruibile tutti i giorni. Pensi, c’era persino una chiesa».
Perché Roma è prigioniera di se stessa?
«Ci vorrebbe un piano regolatore per lo sport. Si identificano dei terreni e chi vuole costruire un impianto sa dove può edificare. Si possono ridurre le spese e mantenere una fonte di guadagno, perché è sempre un errore dire di no a un investitore. Se c’è una speculazione, che è un modo comune per dire investimento, almeno sarà gestita».
Pare un’idea troppo buona perché venga davvero messa in pratica. Roma, in queste condizioni, non rischia di diventare la città del no?
«Si è parlato tanto delle candidature olimpiche. Mi piacerebbe che Roma diventasse una città a vocazione olimpica. Si individuano le priorità dell’impiantistica, si interviene con controlli pubblici sui progetti privati, si legano l’interesse della collettività e quello dell’investitore, si migliora la qualità e la quantità degli impianti. Così un’eventuale nuova candidatura avrebbe una forza immensa: quella di avere già una base importante. Dentro la città c’è una ferita che mi fa particolarmente male: il degrado di Campo Testaccio. Nei miei sogni, recuperato, si chiamerebbe Dino Viola».
Fonte: Il Corriere della Sera - Valdiserri