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La Grande Bellezza

condividi su facebook condividi su twitter 04-04-2016

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La Grande Bellezza

Quando Luciano Spalletti entra in campo, a otto anni di distanza dall’ultimo derby, ha la faccia di Jep Gambardella, il Toni Servillo di Paolo Sorrentino. L’uno, il protagonista de La Grande Bellezza (2013) «destinato alla sensibilità», l’altro, il tecnico giallorosso, a un pragmatico sentimentalismo. Delle stracittadine che abbiamo vissuto con lui non c’è quasi più nulla: non c’è la Curva, costretta a “trasferirsi” nel vecchio quartiere di Testaccio; non c’è Totti, confinato in panchina insieme a De Rossi, manca il presidente e, per certi versi, pure l’avversario, ridotto ormai a semplice ologramma. 

«Quando sono arrivato a Roma – spiega il protagonista della pellicola di Sorrentino – sono precipitato abbastanza presto in quello che si potrebbe definire il vortice della mondanità, ma io non volevo essere semplicemente un mondano, volevo diventare il re dei mondani». E a quello aspira ancora Spalletti!

Della magnificente Roma del passato non resta quasi più nulla, ma la festa è in programma e la musica inizia. Basta poco per lasciarsi coinvolgere, un quarto d’ora appena: Digne scarica il pallone in area alle spalle di Bisevac, arriva El Shaarawy che salta, volteggia e colpisce: elettrizzante, come l’1-0 alla Lazio! Nonostante tutto, non c’è posto migliore in cui stare ed è impossibile evitare lo sballo. Ma l’esaltazione rischia di trasformarsi in presunzione, lo sfarzo in vizio, ed ecco Nainggolan che assume i crismi del cardinal Bellucci, Salah quelli dell’avvenente Ramona.

Troppe le occasioni sprecate all’interno di un primo tempo magnificente e barocco, splendido e inconsistente come le chiacchiere tra i salotti d’alto bordo. Il palo colpito da Pjanic né è la più fulgida testimonianza. Ma nonostante tutto c’è modo di divertirsi, come quando Dzeko, appena entrato, riesce a trasformare un vecchio vezzo (palo di Perotti) in un personalissimo Rinascimento: 2-0! Bello, alto e generoso, seppure un po’ ingiallito rispetto al passato. Pare Lorena (Serena Grandi) che esce dalla torta di compleanno. Si balla, di nuovo: «Auguri Jep, auguri Rooooma!». Jep se la gode, divertito, ma non troppo rilassato. Il pericolo dell’inconsistenza, del resto, è dietro l’angolo: «Che cosa ti piace di più, veramente, nella vita?». Se lo chiede spesso Servillo, così come Spalletti, che intuisce già il pericolo della rilassatezza. E’ lì che si insinua la Lazio, con Keita e Klose, Parolo e Felipe Anderson: un gol fatto e un altro sfiorato.

Ma al netto dei suoi vizi, Roma regala pur sempre squarci di magnificenza. Così quando non riesci a scorgere il Colosseo o San Pietro, Totti o De Rossi, spalanchi gli occhi su Castel Sant’Angelo, Florenzi: 3-1! Quel gol ti ruba l’anima, perché capisci che Roma non è soltanto splendida, ma infinita, capace di rigenerarsi al ritmo imposto dall’eternità. Eccolo qua un altro capitano romano e romanista! Un altro vanto, unico, inconfondibile e inimitabile. Ma se rinnovamento deve essere, alla festa non possono che prendere parte soprattutto gli ultimi arrivati. Dopo El Shaarawy, c’è gloria così pure per Zukanovic (ottimo impatto) e Perotti (migliore in campo!). Quel gol, il quarto, è una porta sul futuro.

Così, nonostante le sue contraddizioni e suoi vizi, le assenze (pubblico), gli accantonamenti (Totti e De Rossi), il chiacchiericcio della gente e l’incomprensibile propensione al vacuo, Roma resta splendida, capace di regalare lampi di meraviglia a chi la osserva. Inarrivabile più della Juventus in questo senso, più di un primato solitario: irraggiungibile! Schiava e padrona della sua Grande Bellezza

 

Fonte: a cura di Marco Madeddu

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