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Falcao, la luce di una nuova Roma (Parte I)

condividi su facebook condividi su twitter 19-01-2016

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Falcao, la luce di una nuova Roma (Parte I)

PAOLO VALENTI - Paulo Roberto Falcao. Difficile trovare un nome che abbia avuto maggior impatto nella storia di Roma negli ultimi quarant’anni. Anzi, impossibile. Dove, come trovare un personaggio che abbia avuto più ascendente di lui nell’immaginario collettivo della città? Chiedetelo a quei romanisti oggi in pensione, che fino al 1980 pensavano di essere innamorati della squadra sbagliata. Chiedetelo ai cinquantenni che solo a sentirne il nome in triplice, scivolata sequenza, si illuminano di un sorriso che confonde nostalgia e vanto. Chiedetelo a chi, nato nella prima metà degli anni ottanta, si chiama Paolo Roberto. In quel periodo Falcao era ovunque: in campo, immortalato nei tabelloni pubblicitari, evocato nelle pellicole cinematografiche e televisive, disputato sui giornali, non solo quelli sportivi. Soprattutto, era un riferimento costante nelle discussioni da bar e nelle pause caffè di impiegati e dirigenti che non consumavano ancora le giornate nel maneggio convulso di smartphone e personal computer.         
Ma chi era Falcao? Non molti lo conoscono quando, nell’agosto del 1980, mette per la prima volta piede a Roma. O meglio, all’aeroporto di Fiumicino, dove trova ad attenderlo qualche migliaio di tifosi che, a dire il vero, andando dietro alle ricorrenti voci di mercato dell’estate, si aspettano l’acquisto roboante di Zico, all’epoca il miglior giocatore del mondo. Di questo giovanotto brasiliano, fisico asciutto, capelli ricci lunghi quanto basta e elegante completo carta da zucchero, in realtà in Italia non si sa molto. Nato il 16 ottobre del 1953 nel circondario di Xanxerè, in realtà è nel giro delle nazionali brasiliane già da una decina d’anni e ha vinto tre campionati con l’International di Porto Alegre quando approda nella capitale. Forse il grande pubblico non lo conosce perché non ha partecipato ai mondiali d’Argentina, escluso dal CT Coutinho a seguito della sua dichiarazione di non voler far parte della Selecao come riserva. Oppure perché il suo nome non viene spesso urlato dai primi commentatori delle partite del campionato brasiliano a causa della sua non assidua presenza nel tabellino dei marcatori: non è lì che le sue qualità servono di più a una squadra. Fatto sta che lo scetticismo nei suoi confronti va avanti qualche mese, di pari passo con le prestazioni non ancora scintillanti che Falcao offre nei primi tempi della sua esperienza italiana: lunghe settimane che gli servono per studiare la serie A, il modo di giocare degli avversari e le caratteristiche dei compagni. Nel suo modo organizzato di intendere il calcio, Paulo Roberto ha bisogno di molti input prima di arrivare a esprimersi per quello che è: un direttore del gioco, capace di progettare un’azione prima nella sua mente e poi, un attimo dopo, disegnarla sul campo, sapendo dal tocco iniziale come andrà a finire.
La Roma comincia bene la stagione, poi compie un brutto passo falso a Napoli: 0-4 contro i partenopei. Ma la giornata successiva la schiacciante vittoria a Milano contro i campioni d’Italia (4-2) riporta i giallorossi in orbita. Partita dopo partita, Falcao prende per mano una squadra che, grazie alla sua forza mentale, costruisce sui risultati le sue certezze. Il brasiliano e Liedholm parlano la stessa lingua calcistica: il Barone sostiene che il pallone corre più veloce dei giocatori e Falcao, in mezzo al campo, gioca sempre di prima, trovandosi nel posto giusto al momento giusto, servendo i compagni più liberi e meglio in grado di affondare i colpi sull’avversario. In Italia nessuno ha mai visto un brasiliano così europeo, affatto incline alla giocata danzata, al numero ad effetto, al dribbling a tutti i costi. La sua maglia, la numero cinque, si stacca dalle spalle di ruvidi stopper dai piedi amari, messi in campo solo per randellare le caviglie di attaccanti che spesso ricorrono alla sceneggiata per avere un fallo a favore, un attimo di ristoro: era dai tempi del ventennio tra le due guerre che non si vedeva il numero cinque posizionato sulla linea mediana. Una maglia portata con eleganza, infilata alla  perfezione su un torace aperto che sostiene lo sguardo sempre alto, concentrato sulla lungimiranza di trame offensive che i compagni imparano a capire negli allenamenti della settimana. La Roma passa l’inverno in cima alla classifica giocando un calcio nuovo, basato sulla difesa a zona e il palleggio di un centrocampo di elevato tasso tecnico. Il pubblico romanista, reduce da decenni di miseria pallonara, si innamora di quella squadra e del suo leader di maggiore personalità, vagheggiando di Falcao in ogni possibile versione: profeta, nuovo re di Roma, playboy dei salotti in compagnia di dame bionde e attrici di successo. Tifosi e giornalisti arrivano a disquisire della corretta pronuncia del suo cognome: Falcon, Falsao, Falcao, addirittura Farcao nella dizione di un romanesco che mutua dall’italiano una versione letterale storpiata alla maniera di Trilussa. Lui, per fortuna sua e della squadra, è troppo intelligente e pratico per lasciarsi ammaliare dal canto di queste sirene. 

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