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(Editoriale) La Curva Sud e quello striscione: impariamo a rispettare il dolore degli altri

condividi su facebook condividi su twitter Di: Francesca Ceci 06-04-2015 - Ore 14:30

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(Editoriale) La Curva Sud e quello striscione: impariamo a rispettare il dolore degli altri

In occasione della festa di Pasqua e Pasquetta, anche noi di Insideroma abbiamo deciso di osservare 3 giorni di riposo e vi avevamo dato appuntamento a martedi per riprendere il normale lavoro di redazione. Ma chi fa questo mestiere, lo sa bene, deve rispondere alle notizie. E ce n'è una che in queste ore sta facendo il giro di tg e web: quello striscione esposto dalla Curva Sud rivolto alla madre di Ciro Esposito durante la partita in casa contro il Napoli.
Per questo motivo abbiamo deciso di rompere il silenzio con un editoriale del direttore di Insideroma Francesca Ceci.

Premessa: Non entro nel merito della vicenda giudiziaria per cui ci sono le sedi competenti che stabiliranno con certezza la dinamica dei fatti. Permettetimi, invece, di entrare con delicatezza e rispetto nella vicenda umana.
Facciamo un passo indietro: non voglio parlare di Ciro, non voglio parlare di Antonella. Per me quel ragazzo di appena trentanni poteva chiamarsi con qualunque altro nome, poteva venire da Napoli come da New York, poteva essere biondo con gli occhi marroni o poteva non averli affatto i capelli. Poteva essere successo all'uscita di un supermercato o fuori a una discoteca dopo una rissa.
Per questo io non parlerò di Ciro e di sua madre Antonella, io parlerò di una madre e di suo figlio.

ANTEFATTO - LO STRISCIONE: "Che cosa triste: lucri sul funerale con libri e interviste». Poi, poco più distante, un altro: «C'è chi piange un figlio con dolore e dignità e c'è chi mi fa un business. Signora De Falchi onore a te».

Esperia De Falchi, scrivo e pronuncio il suo nome con riverenza, commozione e rispetto, la riverenza che si deve davanti a una donna che ha perso un figlio per una partita di calcio. Un'aggressione brutale, senza spiegazioni e senza possibilità di fuga. Per Antonio DeFalchi, romanista, diciannove anni, la morte  è arrivata davanti ad un cancello dello stadio di San Siro alle dodici meno un quarto di una domenica qualunque, cinque ore prima dell'inizio della partita Milan-Roma.
Trenta criminali travestiti da tifosi gli si sono lanciati contro dopo avere accertato che si trattava di un «nemico».

Esperia De Falchi, lei per prima sa quanto è pericolosa e infame la logica che ti porta a
individuare nell'altro il nemico, cosi tanto nemico da ucciderlo.
Antonio è morto cosi. Antonio è morto perchè chi lo ha ucciso non lo conosceva. Gli è bastata un'etichetta "romanista". Chi ha ucciso Antonio non sapeva che sogni avesse. Cosa voleva diventare da grande.
Se sognava di diventare calciatore, di laurearsi, se aveva una fidanzata che un giorno avrebbe voluto sposare.

Antonio come Ciro era un ragazzo. Potevano chiamarsi Marco e Paolo, fate voi, sarebbe stata la stessa cosa. Fatto sta che due ragazzi non ci sono più e due madri hanno perso due figli.
Due modi diversi di vivere lo stesso dolore, questo è vero. Ma chi le conosce le dinamiche del dolore? Non a caso si dice che il dolore degli altri è sempre dolore a metà.

Intimo e nascosto quello della Sig.ra Esperia. Sicuramente più mediatico quello della sig.ra Antonella che ha scelto di fondare un'associazione e di scrivere un libro, che va nelle scuole a raccontare quel figlio che non c'è più.
Ma chi siamo noi per dire come va vissuto un dolore? Purtroppo, nel dolore non c'è mai contrapposizione, non è una gara a chi è più bravo, nel dolore c'è solo purtroppo altro dolore. E' scavarsi dentro per trovare alla fine altra disperazione e questo è uguale per tutti. Le reazioni no, quelle variano da persona a persona. C'è chi piange e si inginocchia, chi si strappa i capelli, chi grida, chi urla, poi c'è pure chi non versa una lacrima, chi resta muto in silenzio a guardare nel vuoto come a volerci trovare qualcosa, un segno, una speranza. Ma lo strazio, quello che sta nel cuore, chi può vederlo e chi può giudicarlo cosi tanto da poter affermare che una madre lucra sul funerale del proprio figlio?
Si può mai lucrare sulla perdita del legame più profondo che esiste in natura? Perchè sopravvivere al proprio figlio è straziante, è, appunto, contronatura.
"Lucrare, funerale, business": tre parole che non possono stare nella stessa frase.
E' concettualmente sbagliato, persino la sintassi si ribella perchè è umanamente assurdo e ingiusto.

Per questo non farò la corsa a difendere quello striscione e la Curva Sud che pure io amo da sempre e sempre amerò. Ma stavolta no. Poco importa se mi prenderò gli insulti di molti romanisti. Ne sarò, anzi, molto fiera.
Per me la Curva Sud è quella bella del Ti amo. Nessuna tifoseria al mondo, prima della Roma, ha potuto vantare uno striscione come quello. Basta odio, basta violenza. Con quello striscione i tifosi della Roma passarano alla storia. Passarono alla storia per un motivo. Perchè solo l'amore fa la storia. La violenza e l'odio no, generano solo altra violenza e altro odio. In un mondo che già ne è pieno non ne abbiamo di certo bisogno.

Per Antonio, per Esperia. Per Ciro, per Antonella. Per Gabriele, per Giorgio. Per Vincenzo, per suo figlio. Per tutti i figli che non ci sono più. Per le loro madri e i loro padri. Perchè il dolore non ha nome nè cognome. Nè storia. Nè bandiera. 

Fonte: InsideRoma.com

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