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Picchio fa 70: «Io, fuoriclasse di normalità»

condividi su facebook condividi su twitter Redazione 11-03-2013 - Ore 08:01

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Picchio fa 70: «Io, fuoriclasse di normalità»

(Il Messaggero – A.Angeloni) Settanta anni mercoledì. Auguri a Giancarlo De Sisti detto Picchio. Un pezzo di storia della Roma, un altro della Fiorentina, ha sfiorato il sublime con l’azzurro a Messico ’70. Ora ha un incarico in Figc, insegna l’educazione nello sport.

 

Settanta anni, quanti nel calcio, De Sisti?
«Sono entrato nella Roma e ne avevo diciotto, faccia lei».

 

S’è divertito?
«Tantissimo».

 

Il calcio le ha dato tanto.
«Ho guadagnato, ho girato il mondo, ho conosciuto culture diverse. Ho giocato nel mio stadio Olimpico. Per essere stato un normale, tantissimo. Ero un bonaccione, questa professione mi ha rinforzato anche un po’ il carattere, mi ha insegnato a “picchiare”».

 

Picchio, appunto. Ce lo vede un bonaccione nel calcio moderno?
«Sai quanti schiaffi prenderebbe. Oggi i calciatori sono smaliziati, guadagnano tantissimo, hanno macchinoni, ville, tatuaggi. Io ero diverso: io non mi sono certo arricchito e oggi faccio una vita semplice».

 

Non si definisce un campione.
«No. Ero, però, uno che difficilmente sbagliava partita. Non andavo mai sotto il sei e raramente prendevo otto».

 

Eppure il suo curriculum dice altro.
«Sì, ho giocato al fianco di grandi giocatori, penso a Rivera, Prati, ho avuto maestri di livello, tipo Liedholm. Non mi lamento. Sono arrivato in alto, senza mai toccare il vertice assoluto».

 

Era un calciatore lineare.
«Facevo il mio, senza fronzoli. Di sicuro non mi correvano appresso le fans. Anche oggi la gente mi guarda e si chiede: è lui o non è lui? Certo che è lui…».

 

Fa il modesto, però era nell’undici di Italia-Germania 4-3, il match del secolo.
«Ecco, se ci ripenso oggi mi emoziono ancora. Quel giorno, sull’attenti ascoltando l’inno, il mondo ci guardava. Quella partita mi rende fanatico, cosa che mi capita di essere mai. Quella squadra sfiorò la leggenda. E io c’ero, ne sono orgoglioso».

 

Lei, un romano, ha trovato le sue fortune a Firenze.
«Quando mi hanno detto che sarei dovuto andare alla Fiorentina, piansi come un bambino. Non volevo, avevo paura. Poi, strano il calcio, lì ho trovato una seconda famiglia. Ho vinto anche uno scudetto».

 

E dalla Roma, nel tempo, è stato dimenticato.
«Forse sì, ma poco importa. La gente non lo ha fatto. Sono rimasto sorpreso dell’applauso ricevuto la sera degli ottanta anni della Roma. Non me l’aspettavo proprio, mi ha riempito er core».

 

È stato vicino alla Roma con il presidente Viola.
«Sì, ma non ci mettemmo d’accordo sul cosa fare. Lui voleva darmi la Primavera, io volevo insegnare calcio ai ragazzini. E finì lì. Anche con Anzalone dovevo entrare nel settore giovanile, ma non erano pronti i campi».

 

Con Sensi, invece?
«Mi ha sempre considerato poco».

 

Possibile?
«Sì. LE racconto questo episodio. E l’epoca di Agnolin, con lui dovevo partecipare a un convegno in cui raccontare le nostre esperienze. Andai a Trigoria per preparare un po’ gli argomenti dei dibattiti e incontrai il presidente Sensi per la prima volta. Si rivolse ai suoi collaboratori e disse: “Sapete chi è questo? Picchio De Sisti”. Poi, rivolgendosi a me. “Si ricorda quando andammo in Inghilterra con la Roma e sull’aereo mi ha vomitato addosso?”. Io lì per lì non sapevo cosa rispondere, ci rimasi anche un po’ male. Mi ricordavo l’episodio, tra l’altro tornavamo da una trasferta nella quale avevo anche segnato. Tra me e me ho pensato: se la prima cosa che viene in mente a Sensi è che gli ho vomitato addosso, che futuro posso avere nella Roma? Infatti… Prima di andare via gli dissi: spero che abbia le stesse soddisfazioni di Viola. E lui: Viola ha avuto molta fortuna».

 

La sua ultima esperienza vera è stata nella Lazio, giusto?
«Lì fu una cosa molto particolare. Mi chiamarono Cragnotti e Governato per propormi il settore giovanile. “Ma con tutti i laziali in giro, proprio a me dovevate chiamare”, gli ho detto. Loro erano convinti, ho accettato».

 

Perché ha smesso presto di fare l’allenatore?
«Per colpa di Moggi. Allenavo l’Ascoli, lui era un «collaboratore» di Costantino Rozzi. Se non stavi dalla sua parte ed eri un allenatore normale come me, eri finito. Infatti ad Ascoli ebbi parecchi problemi. Denunciai pubblicamente il suo modo di agire, caso strano, dal 1994 non mi ha cercato più nessuno. Io molto prima di Calciopoli scoperchiai quel sistema, i fatti mi hanno dato ragione».

 

Un peccato, non aver continuato.
«Alla fine sono stato in famiglia, l’unica cosa che conta davvero per me. Ho una moglie fantastica, tre figli e sei nipoti. Devo tutto a loro».

 

Le piace il calcio di oggi?
«Sì certo, non faccio altro che stare davanti alla tv».

 

I giocatori come lei adesso vengono marcati a vista.
«Succede con Pirlo, che è il numero uno in quel ruolo. Ma era così anche ai miei tempi: chiedete a Trapattoni. Non ha marcato solo Pelè, ma anche De Sisti. Una volta me lo trovai addosso per tutta la partita».

 

C’è un De Sisti nel calcio di oggi, magari nella Roma.
«Non lo so, c’è chi mi accosta a De Rossi, ma io ero diverso. Forse, con meno ghirigori e meno finte, mi rivedo un po’ in Pizarro».

 

Ultima domanda, scelga: Totti o Rivera?
«Pare facile. Gianni era più elegante, Francesco più potente, più bomber. Due fenomeni, loro sì».

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