Rassegna stampa

Renzi: “Finito il campionato, al lavoro per riportare le famiglie alle partite”

condividi su facebook condividi su twitter Redazione 05-05-2014 - Ore 09:51

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Renzi: “Finito il campionato, al lavoro per riportare le famiglie alle partite”

E’ bastato passare dall’Olimpico di Roma all’Olimpia di Firenze per con- vincere Matteo Renzi di avere un compito in più, oltre ai tanti già in agenda: restituire il calcio alle famiglie, ai bambini, in una parola alla civiltà. Sabato sera il premier era con moglie e figli alla finale di Coppa Italia, e ha visto e sentito quello che tutti abbiamo visto e sentito: la partita che comincia in ritardo, i grandi campioni genuflessi a baciare la pantofola di «Genny la carogna», le bombe carta, i fumogeni, i fischi all’Inno di Ma-meli. Poche ore dopo, ieri mattina, Renzi era all’Olimpia di Firenze, dov’era in programma il quadrangolare nel quale era impegnato il suo secondogenito Emanuele, undici anni, che gioca nella Settignanese: ed è stata una festa per tutti, grandi e piccoli. Lì, alla partita di mio figlio, ho sentito che in quell’ambiente il calcio appartiene ancora alle famiglie. E ho pensato ai tanti bambini che la sera prima erano all’Olimpico con le maglie viola e azzurre», confida il premier mentre sta andando nelle Marche a far visita ai luoghi colpiti dal nubifragio. Non vuole unirsi «alle solite strumentalizzazioni del giorno dopo». Ha chiamato la vedova dell’agente Raciti, offesa dalla maglietta indossata dal capo ultrà della curva napoletana che inneggiava all’assassino («Mi sono scusato con lei a nome delle istituzioni dello Stato»), ma prima di entrare nel merito di quanto è successo sabato sera, prima di parlare dei possibili responsabili, attende un report dettagliato. II suo è, per adesso, un discorso di prospettiva. «Voglio far passare le elezioni perché è da sciacalli buttarsi su quello che è successo quando c’è un ragazzo che sta male. Non mi interessa prendere voti in questo modo. Se qualcuno lo vuol fare, lo faccia. Io non ci sto. Lascio passare le elezioni, lascio fmire il campionato e poi, tra luglio e agosto, pensiamo a come restituire il calcio alle famiglie». La famiglia: la famiglia è un chiodo fisso nella testa di Matteo Renzi «perché sabato sera – dice – allo stadio ci sono andato da babbo, e ora da babbo sento il dovere di far sì che il calcio possa tornare a essere un gioco, e non un’occasione di guerra fra bande». Illusione? Buoni propositi che già tanti altri politici hanno dovuto rimettere nel cassetto dei sogni? «In Inghilterra avevano problemi più grossi di noi, eppure ce l’hanno fatta. Negli Stati Uniti si perde una finale per un punto contestato eppure tutto finisce con una grande festa. Perché non cela dovremmo fare noi?». E convinto ovviamente, che la strada sarà lunga. E che non passerà solo attraverso l’educazione: «È necessaria anche la coercizione». E questo in un mondo in cui si è voluto dialogare anche quando il dialogo non serve più: «In un Paese civile Genny la carogna, con quella maglietta lì, non sta in curva, sta dentro. Sabato, e troppe altre volte come sabato, abbiamo visto lo stadio come un luogo dell’impunità. Sa qual è stata la cosa forse più sconvolgente? E stato vedere i giocatori che andavano a parlare con i capi delle tifoserie». Gli chiedo come sia possibile, però, che ai tornelli degli stadi fermino e si perquisiscano i papà con i bambini, che si ordini loro di togliere i tappi delle bottigliette, e poi certe facce da colonia penale possono portare dentro le bombe carta. Non facciamo le belle addormentate – è l’amara considerazione del presidente del Consiglio – questa cosa c’è sempre stata. Hanno tolto dalle curve gli striscioni, alcuni dei quali erano anche divertenti, salvo poi far entrare quello che abbiamo visto lanciare sabato sera dagli spalti. Non ci sono dubbi che questo deve finire. Comporterà la rottura con certi ambienti delle tifoserie organizzate? Vorrà dire che romperemo». Aggiunge: «Certo tutto questo richiederà molti interventi. Anche stadi nuovi. Non è il momento di parlarne. Ma quando finisce il campionato, ci metteremo al lavoro. Sono convinto che il calcio sia un luogo da cui può ripartire la convivenza civile del nostro Paese». L’ultima cosa che mi dice può sembrare sorprendente per chi ha visto la partita in tv. Perché testimonia un’emozione, o meglio un sentimento, che chi non era allo stadio difficilmente ha potuto cogliere: «La cosa che ha colpito di più i miei figli non è stata il ritardo con cui è cominciata la partita. Sono stati i fischi all’inno nazionale. Ormai da alcuni anni, diciamo con il presidente Ciampi e poi con Napolitano, nelle scuole l’inno nazionale è tornato ad avere un’importanza che ai miei tempi era andata perduta. Per i bambini, l’inno è una cosa sacra, una cosa bella. Me ne rendo conto tutte le volte che vado in visita alle scuole. Per questo sabato sera i bambini sono rimasti amareggiati nel sentire tanta gente che fischiava. Anch’io ero amareggiato. Qualcuno ci ha detto: andiamo via tutti, non si può stare in uno stadio che fischia l’inno della nostra patria. Ma siamo rimasti, perché noi, a quella gente, il calcio non glielo lasciamo»

Fonte: la stampa (M. Brambilla)

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