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Sliding doors

condividi su facebook condividi su twitter 03-02-2016

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Sliding doors

La traversa su cui sbatte il pallone calciato da Berardi, all’87’, è la porta della metropolitana chiusa in faccia a Gwyneth Paltrow (Sliding Doors, 1998). Poteva rimanere maledettamente identica a se stessa la storia di questa stagione, fatta di amarissimi pareggi, di vittorie sfumate via sul più bello, come col Bologna, il Torino, o il Verona ad esempio. Poteva definitivamente consegnare la Roma all’anonimato di un campionato che, fosse entrata quella palla, non avrebbe più avuto la forza di rimettere in piedi.
Ma quella palla spedita dalla traversa al settore ospiti (fatto di duemila cuori pulsanti a 432 chilometri dalla capitale, in uno scomodissimo martedì sera), forse, cambia il corso delle cose. E tutta quella gente, probabilmente, svolge un ruolo determinante. «Si vince tutti insieme - continua a ripetere non a caso Luciano Spalletti – società, squadra, tifosi», e mai come stavolta la retorica lascia il posto alla realtà dei fatti. Solo undici metri tra il pallone e Szczesny, ma tre metri dietro ci sono loro, tre metri dietro c’è ancora la speranza di non dover soccombere, non più. Tre metri dietro c’è un popolo intero che soffia via il pallone dalla porta, che si riprende la stagione e la speranza di credere ancora in un domani migliore. Tre metri dietro ci sono canti e bandiere, e fischi all’indirizzo di Berardi. Tre metri dietro che sembrano, in realtà, a Tre metri sopra il Cielo.
A fare Step (Riccardo Scamarcio), del resto, ci aveva già pensato Perotti, con le sue scorribande su e giù per il campo. L’argentino impenna, derapa, sconvolge la vita di chi gli è attorno, entra nella vita della Roma proprio come Step in quella di Babi (Roberta Gervasi): l’effetto è dirompente.
Accanto a lui tutti ritrovano l’entusiasmo dei giorni migliori. La Roma dei primi 45’ minuti, non a caso, è una squadra bella e autoritaria. Aggressiva, tecnica, consapevole e capace. E le basta poco (11 minuti appena) per rispolverare le sue migliori virtù: Pjanic, Maicon, ancora Pjanic in verticale per Salah, che come Tutankhamon si scrolla dal torpore e salta fuori dal sarcofago. Pare l’Imhotep di Stephen Sommers (La Mummia, 1999) risvegliato dalla splendida Evelyn.
Ma questa è soprattutto la storia di Sliding Doors, del poteva essere e non è stato. Come quando Salah decide di ignorare Nainggolan a due passi dalla porta, o come quando De Rossi è costretto ad abbandonare il campo, lasciando a Spalletti l’arduo compito di dover ridisegnare la squadra con quel poco (Gyomber) che resta a disposizione. 
Senza la chiave di volta al centro della difesa l’impalcatura giallorossa rischia di crollare, anche se Szczesny fa da pilastro e la traversa, appunto, da trave.
Così, la Roma prima rialza la testa, poi addirittura la cresta: quella di El Shaarawy che chiude la magistrale ripartenza di Perotti (ancora lui) e mette il sigillo a una vittoria importantissima. La seconda consecutiva, la prima in trasferta del 2016 (l’ultima, a Firenze, era datata 25 ottobre). Lo fa senza Manolas, Florenzi, Torosidis, Digne e Dzeko, con Strootman in infermeria e Totti a bordo campo (a fare prodigi). Lo fa adattandosi alle circostanze (gli infortuni di De Rossi e Pjanic) e a prescindere dalle difficoltà (l’espulsione di Nainggolan nel finale). Lo fa con la sua gente e per la sua gente. Lo fa perché lo sa fare, di nuovo, ed è ciò che più conta!

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