Inside international football

Tra le macerie, un pallone - La storia di un calcio, un popolo e un territorio che poteva essere, ma non è stato

condividi su facebook condividi su twitter 14-05-2018

| | Commenti →
Tra le macerie, un pallone - La storia di un calcio, un popolo e un territorio che poteva essere, ma non è stato

Tra le macerie, un pallone

La storia di un calcio, un popolo e un territorio che poteva essere, ma non è stato

 

 

(Simone Belfiglio) - Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito, questa è l’arcinota filastrocca per la quale viene ricordata la ex Iugoslavia, la “terra degli slavi del sud”. Una terra divisa, dilaniata e allo stesso tempo esaltata dalle differenze che intercorrevano tra i suoi abitanti: dagli sloveni, i più mitteleuropei, ai macedoni e ai kosovari (territorio a status conteso), passando per il cuore dei Balcani dove croati, bosniaci e serbi convivevano.

Nel 1929 Alessandro I riunì le 33 contee preesistenti sotto la corona, dando vita a un primo embrione monarchico. A partire dal 1945, poi la monarchia venne abolita lasciando spazio all’ascesa del maresciallo Josip Broz, al secolo Tito, che fondò la Repubblica Socialista di Iugoslavia. E se in un primo momento la Iugoslavia era a tutti gli effetti uno stato sotto l’influenza dell’URSS, con Tito si vide un progressivo allontanamento da Stalin, fino alla completa emancipazione. Proprio grazie all’accentramento di potere il condottiero riuscì ad armonizzare i popoli, fino a quando qualcosa si ruppe quel 4 maggio 1980: il maresciallo Tito muore e dopo giorni di lutto, gli emergenti nazionalismi e le latenti diversità tra popoli diventano un problema insostenibile. Inizia, dunque, quel pluridecennale processo di dissoluzione che, dopo sanguinose lotte fratricide, porterà all’autonomia dei popoli balcanici. Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro e ultimo in quest’ordine il Kosovo, che dichiarata l’unilaterale indipendenza – per altro riconosciuta nel 2015 dall’ONU - vive ancora oggi tensioni con la resistenza dei Serbi.

 

Digressione storica ampia, ma necessaria per introdurre un calcio che in Europa non ha avuto eguali, soprattutto nei primi anni novanta, per potenzialità inespressa.

Ogni popolo ha un forte legame con la propria nazione, e i costumi, le istituzioni, le lingue non sono altro che il riflesso e il prodotto della storia di un paese, di un popolo. Tra queste il calcio: classe cristallina e talento, il tutto unito al Nadmudrivati - un verbo intraducibile, che sta a significare essere più astuto dell’altro; non più forte, ma più astuto - ebbene, sono questi i cardini intorno al quale cresce e si sublima quel meraviglioso laboratorio di talenti. La storia del calcio iugoslavo inizia nel 1930, partecipando alla prima edizione dei mondiali di calcio e facendo una discreta figura. I primi risultati arrivano, escludendo l’Olimpiade, nel 1960: nell’edizione inaugurale del campionato europeo battendo la forte Francia in semifinale, conquista la finale al Parc des Princes contro l’URSS, i cui pali sono difesi dal leggendario Lev Yashin: arrivano al secondo posto, ma ora finalmente il mondo si accorge di loro. Otto anni dopo la storia si ripete e i plavi - i blu - passano contro Germania Ovest, Francia e Inghilterra, arrendendosi in finale all’Italia di Riva e Valcareggi. La squadra si conferma ad alti livelli, esprimendo un calcio meraviglioso, solo per palati fini, come quello di un certo Edson Arantes do Nascimento, Pelè, che per la sua partita d’addio scelse di ospitare al Maracanà proprio la Iugoslavia. Dunque, un decennio di buoni risultati quello dei ’60, conquistati da una generazione d’oro che include giocatori come Dragan Dzajić, un quasi pallone d’oro nel 1968, Ivan Ivica Osim e Milan Galić, colonna del Partizan. Dopo il periodo di successi tra i sessanta e i settanta, vengono anni di crisi per la nazionale: dal Mondiale ’78 fino agli Europei ’88 solo delusioni, ma ecco che una nuova fortissima generazione di giocatori riscrive la storia del belcalcio. La loro avventura a Italia ‘90 finisce ai quarti di finale, eliminati dall’Argentina ai rigori, ma la partecipazione è ricordata soprattutto per la qualità superiore del gioco espresso, grazie a quell’orchestra di fortissime singolarità – vaghe similitudini storiche? – che riuscí ad unire la concretezza ai virtuosismi, l’utile al dilettevole, che ha portato il futebol nei Balcani. Ecco “il Brasile d’Europa”: il CT è proprio Ivan Osim, centrocampista fenomenale che guidò la Iugoslavia negli Europei del ’60 e del ’68, che dispone una difesa solida, e un reparto offensivo tutta fantasia ed efficacia. Stojkovič, il vero protagonista del Mondiale fino al rigore fallito contro l’Argentina, Vujović, Susic e Pančev, più gli innesti prelevati dalla nazionale U-20 fresca vincitrice del mondiale in Cile come Savićević, Prosinečki, Šuker. Questi alcuni nomi che resero immortale quella squadra, l’ultima Iugoslavia a partecipare a un Mondiale. Ma nello sport il destino è decisivo e gli dei del calcio hanno voluto che gli stessi slavi del sud fossero dotati di immenso talento, ma che in compenso fossero fragili, talmente fragili da non poter gestire quel dono.

L’intreccio tra calcio e storia è inevitabile, se non fosse altro che alla fragilità dei calciatori venga accostata quella di un paese, che proprio nei primi anni ’90 vide lo scoppio delle tristemente celebri lotte fratricide. È il 1991 quando Slovenia e Croazia si dichiarano indipendenti, ma l’aria che si respirava era diventata insostenibile già un anno prima, precisamente il 13 maggio, in occasione della partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa allo stadio Maksimir. I Delije, gli ultras serbi, vennero in massa, e scatenarono una guerriglia in campo, fronteggiandosi con i BBB, i Bad Blue Boys della Dinamo. Fu inevitabile il coinvolgimento delle forze dell’ordine filo-serbe, che ci andarono giù pesante con i croati, fino a quando il destro - e che destro - del ragazzino col 10 dei blu, si stampò sul corpo di un poliziotto che stava malmenando un supporter croato. Quel ragazzino si chiama Zvonimir Boban e quel calcio ribelle rimarrà negli annali calcistici e non solo, a dimostrazione di come il calcio può essere un veicolo straordinario per la diffusione di idee e pensieri. Dunque, dalla rivalità tra etnie e popoli, si passa molto facilmente alla rivalità sul campo di gioco: nonostante il celebre slogan Bratstvo i Jedinstvo - fratellanza e unità - ad indicare quell’utopico spirito di cooperazione tra repubbliche federate, tutte le squadre, in diverse misure, si dotarono di una forte connotazione politica. L’Hajduk di Spalato, una squadra fondata nel 1911 in una birreria di Praga, si connota per il forte orientamento nazionalista, e proprio per questo i vertici del club rifiutarono la proposta di Tito di diventare la squadra dell’Armata Nazionale Iugoslava. Un atto di resistenza propugnato dai dirigenti del club, che comunque difesero la società dallo scioglimento. Lo stesso invito fu rivolto, questa volta con successo, al Partizan, una nuova squadra fondata nel 1945 che diventò l’orgoglio titino e dei partigiani - da qui il nome - sotto il suo comando. Nonostante avesse importanti sostenitori ai piani alti del governo Iugoslavo, risultò essere la seconda squadra più vincente di Belgrado. Con i suoi 11 titoli i bianconeri non reggono il confronto con il palmarès della Stella Rossa, che oltre ai 20 titoli nazionali, annovera una Coppa dei Campioni e una Coppa Intercontinentale conquistate nel 1991.

Così come i cugini anche la Crvena zvezda nasce nel 1945, grazie ad alcuni studenti dell’università di Belgrado, che fondarono una società dalle fortissime connotazioni antifasciste, motivo per il quale la squadra fu accettato di buon grado dal maresciallo. La Stella Rossa è la squadra del popolo, della gente e del legame indissolubile con la patria: vince tanto, più di tutti nei confini e anche fuori, motivo per il quale vale la pena soffermarsi su un particolare titolo che la Crvena zvezda ha istituito. La stella della Stella Rossa è un premio che viene affidato ai giocatori che hanno segnato la storia vincente della società e per capirne l‘esclusività e l’importanza, dal ’45 a oggi sono stati solo cinque giocatori a poter ricevere il riconoscimento: Rajko Mitić, a cui è intitolato lo stadio, il Marakana, Dragoslav Šekularac, Dragan Dzajić, Vladimir Petrović e infine Dragan Stojković, forse il miglior giocatore iugoslavo di sempre, lasciò la Crvena nel 1990, passando all’Olympique Marsiglia. Fatalità volle che la stagione seguente la Stella Rossa e il Marsiglia si incontrassero a Bari, con in palio la Coppa dei Campioni. Il campione serbo entro ai supplementari, portando la partita ai rigori dove prevalse la Stella Rossa. La straordinaria impresa rimarrà per sempre impressa nei tifosi della Crvena, che poteva disporre di un 11 leggendario, meritoso di entrare nella storia del club come Generazione ’91 e di ricevere il premio come la “sesta stella” della Stella Rossa.

Da Belgrado a Zagabria, quasi 400 chilometri che separano il centro del calcio balcanico - appunto Belgrado - dalla Dinamo, la squadra più importante della Croazia, che fu voluta dal dittatore Pavelic nel 1945. Dalla fusione dei tre club principali di Zagabria (HAŠK, Građanski, Concordia) nacque dunque la Dinamo, che è terza nella classifica perpetua della Prva Liga Jugoslavia ed è la squadra più titolata di Croazia. La Re Mida dei Balcani, è ormai un veicolo straordinario di talento, che passando dalle parti di Zagabria in direzione Europa-che-conta, riesce ad arricchire i grandi team europei di giocatori fenomenali, maturi e pronti.

 

Ma nel racconto si va sempre oltre i se e i ma, perciò non ha senso chiedersi quali risultati avrebbe potuto raggiungere la Iugoslavia se avesse partecipato regolarmente alle competizioni internazionali. Non c’è nulla di affascinante nel comporre un’ipotetica Nazionale Iugoslava al giorno d’oggi, ci vedo solo tanta malinconia e tristezza.

E dunque, tra le macerie e la violenza si celano ancora i sogni e le speranze. I sogni di chi, tra teorie fantacalcistiche e amore per il gioco, rivorrebbe rivedere l’unità di intenti, almeno nel calcio. Le speranze di chi, con spirito critico, spera che le tensioni, che ancora oggi non si placano, cessino, in favore di una pacifica convenienza.

Il resoconto di ciò che poteva essere, ma non è stato.

 

commentiLascia un commento

Nome:  

Invia commento

Archivio rubrica

-->
chiudi popup Damicom