Red carpet

L'abbraccio. Le lacrime. L'uscita

condividi su facebook condividi su twitter 21-04-2016

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L'abbraccio. Le lacrime. L'uscita

L'abbraccio. Le lacrime. L'uscita. Sono questi i tre fotogrammi che mi porterò dietro, indelebili, di questo romanzesco Roma batte Torino che neppure Federico Fellini sarebbe stato in grado di immaginare così. Si potrebbe definire banalmente una favola, ma non si può per il semplice fatto che Francesco Totti tutto è meno che una esagerata fantasia, perché ce lo stiamo godendo da ventitré anni per una storia che non ne vuole sapere di scrivere il capitolo finale. Uno così io non lo vedrò più. Infinito. Al punto che ho cominciato a piangere di gioia al suo primo gol e non mi sono più fermato.

L'abbraccio, dunque. Scontato, totale, commosso da parte di tutti i suoi tifosi sia che fossero, pochi, presenti all'Olimpico, sia tutti gli altri sparsi in città e nel mondo ai quali un'altra volta, anzi due, ha regalato il brivido di alzare le chiappe da qualsiasi posto fossero seduti per gridare con il cuore in gola goooool, 303esima volta in assoluto, 247esima in campionato, numeri da sbattere in faccia in particolare a tutti quelli che, fino a pochi mesi fa, lo hanno descritto come uno non decisivo, ma adesso lo incensano solo per fare del male alla sua e nostra Roma. E poi c'è l'abbraccio dei suoi compagni di squadra. Tutti, nessuno escluso. Riguardatevelo, e sono sicuro che lo farete mille volte, quel rigore dell'estasi, il suo sorriso con una smorfia di rivincita, ho rivinto io come sempre, il suo tentativo di corsa verso la sua gente, stoppato da Nainggolan, i compagni in campo, quelli schizzati dalla panchina come invasati, gli schiaffi in testa un'abitudine nata ai tempi della prima Roma di Luciano Spalletti. Tutto meraviglioso, vero. E sottolineo vero perché in questi ultimi tempi, quelli in cui ci si è divisi fra contratto sì, contratto no, tra le molte cattiverie che ho sentito in giro, c'è stata pure quella di uno spogliatoio che non lo voleva più, che lo considerasse un peso piuttosto che una risorsa, un totem più ingombrante che rigenerante.

Passiamo alle lacrime. Delle mie ho già detto e ne sono felice come un bambino quando scarta i pacchi sotto l'albero di Natale. E poi, ne sono certo, di certo non sono state le uniche. Chi era allo stadio, pochi, non avrà visto, ma oltre alle mie lacrime, quelle che mi porterò dietro sono quelle di un tifoso inquadrato dalle telecamere, dopo il rigore dell'apoteosi. Stava magnificamente piangendo come un bambino, sciarpa giallorossa al collo, telefonino in mano a riprendere tutto e potete scommetterci che quel filmato non sarà mai cancellato.

Finiamo con l'uscita. Sotto l'arco dei vincitori quella di Francesco Totti, del resto non può dire di non esserci abituato. Inseguito da tutti. Ma lui dritto per la sua strada, un gesto a rimettersi a posti i capelli, uno sguardo di chi gli sarebbe piaciuto continuare ancora a giocare, una concentrazione che me lo hanno fatto sentire uomo e papà, altro che Pupone. Sembrava non sentire niente, invece sentiva tutto. I commentatori televisivi hanno cercato di convincerlo a rispondere a qualche domanda, il suo no è stato netto e deciso, l'abbraccio con Vito Scala, la stretta di mano con uno Spalletti che probabilmente avrebbe voluto fare di più ma il Capitano non gliene ha dato il tempo.

Ecco, il tempo è scaduto. Confesso: fino a poche ore fa avrei probabilmente provato a capire la decisione di non rinnovargli il contratto per un altro anno. Ora non capirei più.

 

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alessandro 24/04/2016 - Ore 19:33

Grazie

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