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Finale 1989 - Milan vs Steaua Bucarest 4 a 0

condividi su facebook condividi su twitter 23-04-2015

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Finale 1989 - Milan vs Steaua Bucarest 4 a 0

PAOLO VALENTI - Il 24 maggio 1989 la finale di Coppa dei Campioni vede fronteggiarsi il Milan e la Steaua Bucarest. Per i rossoneri è la quarta finale, la prima vent’anni dopo quella vittoriosa giocata al Bernabeu contro il primo Ajax di Cruijff. I rumeni sono una consolidata realtà a livello europeo, avendo vinto tre anni prima e essendo arrivati in semifinale nel 1988.

Il percorso verso la finale non è stato affatto scontato per la squadra di Berlusconi: molte insidie già agli ottavi, quando in una gelata notte di novembre solo la nebbia ha impedito alla Stella Rossa di Belgrado di eliminare i rossoneri, usciti vincitori nel recupero della partita disputato il pomeriggio seguente solo al termine dei calci di rigore. Ugualmente ostico il Werder Brema nei quarti, superato grazie ad un rigore molto contestato realizzato da Van Basten. E’ in semifinale che il Milan mostra a tutta Europa il suo potenziale devastante, demolendo a San Siro il Real Madrid di Schuster, Butragueno e Hugo Sanchez con un 5-0 di cui nella partita di andata a Madrid si erano già sentiti gli echi. Dirompente la campagna europea della Steaua: ventidue gol complessivi rifilati in successione a Sparta Praga, Spartak Mosca, Goteborg e Galatasaray. Con risultati del genere alle spalle, a Bucarest dovrebbero sentirsi campioni prima di aver giocato: invece non è così perché il Milan, nel doppio confronto con le merengues, ha gettato definitivamente la maschera indossata nei primi turni della competizione e ha fatto vedere a tutti di cosa è capace quando gli schemi di Arrigo Sacchi girano alla perfezione.

Già, Arrigo Sacchi. Uno che fino a due anni prima allenava in serie B. Uno che col pallone tra i piedi non sapeva cosa farci, avendo avuto una “carriera” da difensore in anonime squadre dilettantistiche. Uno che girava l’Europa per vendere le scarpe dell’azienda di famiglia e tra un appuntamento e l’altro sbirciava il calcio e le idee degli altri campionati. Uno che arrivò a Milanello dopo aver sconfitto due volte su due nell’edizione 1986-87 della Coppa Italia il Milan del neo presidente Berlusconi e del vecchio maestro Liedholm: se non riesci a batterli meglio farteli amici. E così decise il Cavaliere, prima incuriosito e poi abbagliato da quella squadra fatta di corsa a tutto campo e pressing asfissiante che aveva messo alle corde la flemmatica ragnatela di gioco dell’allenatore svedese. Sempre di calcio a zona si trattava ma era la velocità a distinguere inesorabilmente i due sistemi di gioco che, sulla carta, avevano la stessa etichetta. Il vecchio Barone non serviva più: aveva dato una mentalità a quel primo Milan acquistato da Berlusconi. Aveva trasformato Tassotti da ruvido terzino di San Basilio in un laterale di difesa alla… Djalma Santos; aveva svezzato Paolo Maldini e insegnato a Franco Baresi i tempi delle uscite, perché un difensore con quella tecnica non poteva rimanere sempre dietro la linea del centrocampo. Aveva posto le fondamenta su cui costruire ma il suo tempo era scaduto: gli anni ottanta si stavano proiettando sui novanta, il popolo rossonero, il suo presidente in primis, avevano voglia di tornare a vincere e stupire il mondo con qualcosa di unico e spettacolare. Quel romagnolo con pochi capelli e ampi occhiali da sole convinse Berlusconi, che di risorse umane se ne è sempre inteso, di essere l’uomo della provvidenza, capace di portare la rivoluzione in casa rossonera e nel calcio italiano.


Non facili i primi mesi a Milano. Sacchi allena col megafono in mezzo al campo, costringe i giocatori a esercizi massacranti, tanto che, al momento di risalire le scale che portano nelle stanze, ai più viene da piangere. Lo ricorda bene Carlo Ancelotti, arrivato proprio quell’anno al Milan:”La preparazione era terribile, i metodi di allenamento completamente nuovi. L’intensità del lavoro era cinque volte superiore alla media delle altre squadre. Differenze abissali e una fatica pazzesca. Alla fine delle sedute sembravamo degli zombie.”  I risultati non aiutano: qualche sconfitta di troppo in campionato e la prematura eliminazione ai sedicesimi di Coppa Uefa contro l’Espanyol portano alla contestazione. Nell’ambiente comincia a girare la voce che l’allenatore non mangerà il panettone. Capito l’andazzo, un po’ per convinzione, un po’ per orgoglio personale il presidente prende le parti di Sacchi davanti a tutti: con lui si va avanti fino alla fine, non c’è spazio per mugugni o ripensamenti. E’ la prima e ultima volta che si rende necessario il lancio del salvagente perché da quel momento in poi la squadra comincia a macinare gioco e risultati a partire da quel Milan-Napoli che riapre il campionato dopo la pausa natalizia che rappresenta la prima vittoria di altissimo livello che ottiene il Milan con un gioco elettrizzante: i terzini si sovrappongono con le ali per novanta minuti, la difesa gioca perfettamente su una linea altissima che tiene la squadra molto corta nello spazio di una trentina di metri, il pressing parte già dagli attaccanti quando gli avversari impostano l’azione in difesa. Un’orchestra perfetta resa sublime dalle performance degli interpreti la cui qualità, nella teoria di Sacchi, non annega nella forza del collettivo ma, al contrario, ne viene sublimata. Difficile dargli torto: al di là dei gusti personali, chi può dire di aver visto rappresentazioni del calcio migliori? Dopo il 5-0 al Real Madrid, ridotto a San Siro a un’accozzaglia di mestieranti, niente appare impossibile a questo Milan.

Ecco perché, la sera del 24 maggio, il Nou Camp di Barcellona è una succursale rossonera: ottantamila tifosi hanno dato vita a un esodo di massa che rimarrà nella storia della Coppa dei Campioni. Affrontano il viaggio da ogni parte d’Italia, dal sud al nord, con qualsiasi mezzo: macchine, pullman, voli charter, crociere. Barcellona, che nel 1992 ospiterà le Olimpiadi, fa le prove generali delle sue capacità logistiche e organizzative: il Ritz, l’albergo più esclusivo della città, ha esaurito in poco tempo la disponibilità delle sue stanze. Il popolo milanista è uno spaccato trasversale della società che per niente al mondo vuole perdere questa finale: dagli operai ai dipendenti della Fininvest, dai politici ai rappresentanti del mondo dello spettacolo. Tutti hanno richiesto almeno un biglietto da sfruttare direttamente o da regalare agli amici: Ottavio Missoni, Ugo Tognazzi, Abatantuono, Walter Chiari, Massimo Boldi, Enzo Jannacci, finanche il pilota di Formula 1 Riccardo Patrese.


Alle 20,15 lo spettacolo del Nou Camp sembra un preludio dell’inevitabile: impossibile pensare che poche centinaia di rumeni offuscati dal regime di Ceausescu possa ritrovarsi a festeggiare la vittoria. I primi minuti passano via equilibrati, con la Steaua che prova ad affondare i colpi specialmente sulla fascia destra senza impensierire davvero la difesa del Milan. La svolta della gara arriva al 18° minuto, quando, su tiro violento di Colombo, il portiere Lung non riesce a trattenere il pallone sul quale si avventa Gullit che, dopo un ulteriore rimpallo, di piatto facile appoggia in rete. E’ la crepa che fa crollare il muro: da questo momento in poi si assiste a un monologo fatto di pressing, esecuzione di schemi mandati a memoria, forza fisica, concentrazione,  convinzione e voglia assoluta di vincere. Al 28° cross di Tassotti dal fondo e stacco di testa vincente di Van Basten. Al 39° il cross lo fa Donadoni dalla sinistra: Gullit stoppa al volo di destro prima di far rimbalzare il pallone e scaraventarlo a fil di palo. Nonostante il 3-0, anche l’inizio del secondo tempo è targato Milan: al primo minuto Rijkaard assiste Van Basten in profondità. Il cigno di Utrecht ha il tempo di bruciare alle spalle il marcatore diretto e incrociare con un rasoterra preciso il secondo palo. Sul 4-0 la partita non ha più storia, con i rossoneri preoccupati a godersi ogni istante dei minuti che mancano assorbendo le emozioni che trasmette il pubblico ebbro di felicità e i giocatori dello Steaua che non vedono l’ora di chiudere la serata.
La consegna della Coppa dei Campioni è un rituale che si ripete ogni anno che lascia sulle mani dei vincitori il segno della storia. Al Milan del 1989 il crisma della leggenda lo imprime Johan Cruijff, padrone di casa a Barcellona: ”Faccio i miei complimenti a tutti. Mai, né come giocatore né come tecnico, ho visto una tale mobilità di manovra. Nemmeno il mio Ajax giocava così”. Firmato: il profeta del gol.  

                         

Fonte: paolo valenti

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