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Finale 2003 - Juventus vs Milan 0 - 0 (2-3 Dcr)

condividi su facebook condividi su twitter 21-05-2015

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Finale 2003 - Juventus  vs Milan 0 - 0  (2-3 Dcr)

PAOLO VALENTI - L’ultimo mercoledì di maggio del 2003 l’Old Trafford di Manchester ospita la finale della Champions League. Per il nostro calcio è davvero il teatro dei sogni: arrivano a disputarla, per la prima volta nella storia, due squadre italiane, ovviamente le più blasonate insieme all’Inter eliminata dai cugini in semifinale: la Juventus e il Milan. Un doppio derby non proprio esaltante (0-0 e 1-1 i risultati) ha permesso ai rossoneri di varcare la Manica mentre la Juventus ha buttato fuori dalla competizione il meglio del calcio iberico, Barcellona nei quarti e Real in semifinale. I media italiani sono elettrizzati per la serata che si prospetta e per le storie che potranno raccontare.
Sulle panchine siedono due ex calciatori, Lippi e Ancelotti. Il primo è di Viareggio e ha alle spalle una discreta carriera da difensore spesa tra Genova lato Samp, dove ha militato negli anni settanta, e squadre dell’alta Toscana. Da allenatore si è formato partendo dal basso: Pontedera, Siena e Carrarese prima di esordire sulla panchina del Cesena nella serie A 1989-90. Poi arrivano le stagioni con Atalanta e Napoli che lo promuovono all’attenzione della dirigenza juventina, che nel 1994 gli affida la squadra. Una serie di scudetti, oltre alla Champions del 1996, una parentesi poco felice nell’Inter di Moratti e il ritorno a Torino l’estate del 2001 a sostituire quel Carlo Ancelotti che ne aveva raccolto l’eredità nel 1999 e che stasera è pronto a mettersi in mezzo tra lui e l’ennesima vittoria. Occhi cerulei, capelli bianchi e folti, sigaro e occhiali con lenti sempre limpide, Lippi vanta una terribile somiglianza con Paul Newman. E’ difficile strappargli un sorriso: curva degli occhi e delle labbra verso il basso, voce leggermente impastata e atteggiamento spesso insofferente, specialmente nei confronti dei giornalisti, ha la grandissima dote di saper costruire e far funzionare un gruppo. La sua Juventus ha molti giocatori di medio livello capaci, però, di rendere al di sopra delle proprie possibilità. Tra i bianconeri arrivati alla finale ci sono giocatori come Tudor, Montero, Pessotto, Iuliano e Birindelli… Convince tutti, anche i più bravi, della necessità del sacrificio. L’osservatore acuto ne percepisce la cura che sa dare allo spogliatoio, che accarezza con quel garbo che non esprime verso l’esterno.


Dalla parte opposta c’è Carlo Ancelotti, emiliano di Reggiolo, messosi in luce col Parma nella stagione 1978-79 quando, nello spareggio per la promozione in B contro la Triestina, segna la doppietta decisiva che porta i ducali nella cadetteria e convince la Roma ad acquistarlo. Tra Roma e Milano, sponda rossonera, vive una carriera costellata di successi e gravi infortuni. Ha la fortuna di conoscere allenatori eccezionali: Liedholm, Eriksson, Sacchi e Capello si avvalgono della sua forza e della sua tecnica dandogli in cambio la possibilità di studiare da allenatore sul campo. Centrocampista centrale, vive nel baricentro delle squadre per cui milita le due fasi del gioco; impara la zona brasiliana del Barone e ne accelera i ritmi con il rettore di Torsby e il mister di Fusignano. Infine, impara da Capello la capacità di gestire i rapporti con fuoriclasse a volte presuntuosi. Comincia ad allenare come secondo di Sacchi nel mondiale americano: è l’ultima rifinitura prima di andare avanti da solo. Dopo gli anni a Parma, arriva alla Juventus per sostituire Lippi nel corso della stagione 1998-99. A Torino lavora due anni e mezzo con poca fortuna (due secondi posti, uno scudetto perso sul filo di lana nella piscina di Perugia) e poco feeling col pubblico, che gli affibbia lo sgradevole soprannome di maiale. Silvio Berlusconi lo rivuole a Milanello nel 2001-02 per sostituire l’imperatore turco Terim in corso d’opera. Sembra un ricorso storico che a Carletto potrebbe portare male ma il Milan non è la Juventus e così, dopo un anno e mezzo, Ancelotti è lì, davanti ai suoi ex: datori di lavoro, giocatori, tifosi a ricordargli che forse hanno sbagliato a mandarlo via.

   
Il 28 maggio 2003 a Manchester arriva l’Italia: tutti i dialetti della nazione si mischiano sugli spalti dell’Old Trafford quando l’arbitro Merk da inizio al confronto. Dopo una decina di minuti Shevchenko va in gol, annullato per fuorigioco di due compagni. Il Milan, senza strafare, ha una leggera prevalenza nel possesso palla e nel gioco. Nella ripresa, appena entrato, Conte colpisce una traversa. I cronisti annotano poco altro. E’ il teatro dei sogni, quelli di un gioco avvincente che non si vede: sembra di assistere a un big match di Serie A bloccato dalla speculazione tattica, inusualmente disputato su un meraviglioso prato inglese. Del resto allenatori e giocatori sanno cosa significhi vincere una Champions League ma temono ancor più di perderla. Si arriva così al novantesimo senza emozioni da ricordare. Nei supplementari la regola del silver gol blocca le giocate al pari della stanchezza e i rigori fanno capolino nella storia di questa finale. Sbagliano in tanti: Trezeguet, Zalayeta, Montero, Seedorf, Kaladze.

 

L’ultimo pallone è per Shevchenko: lui sa che in questo momento la vittoria è nelle sue mani. Andriy è ucraino, è venuto in occidente per inseguire il successo che il suo talento può raggiungere. È un gradino più in alto rispetto alla media dei suoi colleghi: quando fa i massaggi sul lettino ama recitare ai fisioterapisti di Milanello le poesie imparate da bambino. Berlusconi stravede per lui, le sue fughe in velocità, i suoi tiri potenti, la prolificità sotto porta. La televisione indugia sul suo sguardo: è deciso, impaziente, voglioso di piazzare quel rigore. Non c’è timore nei suoi occhi, non ha il tempo di pensare al rischio di un errore. Le Coppa è lì, a undici metri di distanza: undici metri che un pallone traccia in un decimo di secondo. E’ uno sguardo senza incertezza: un’ultima occhiata all’arbitro prima di partire e poi Buffon va a destra e la palla dalla parte opposta. La Coppa è sua. E di Maldini, che esattamente quaranta anni dopo il padre solleva al cielo d’Inghilterra il trofeo più ambito dai club europei. Ma, soprattutto, è la Coppa di Carlo Ancelotti, da questa sera un ex perdente di successo che i tifosi bianconeri avrebbero voluto relegare in un porcile.   

Fonte: Paolo Valenti

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