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Finale 2009 - Barcellona vs Manchester 2 a 0

condividi su facebook condividi su twitter 05-06-2015

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Finale 2009 - Barcellona vs Manchester 2 a 0

PAOLO VALENTI - 27 maggio 2009: lo stadio Olimpico di Roma ospita la sua quarta finale della massima competizione europea per club. Chiunque abbia assistito ad un incontro dai suoi spalti sa che non è la struttura migliore per vedere una partita di calcio. Questa sera, però, è stato fatto tutto il possibile per renderlo consono all’occasione, essendosi ultimato l’anno precedente il piano di restyling per adeguarlo alle norme UEFA e avendolo il CONI tirato a lucido per renderlo esteticamente ineccepibile alle riprese televisive. 
La quarta finale di Roma, dopo quelle del 1977, dell’84 e del 1996. Altri tempi, altre squadre ma la solita giornata di sole luccicante a fare da prologo a una parata di stelle degna della Walk of Fame. Negli alberghi dove alloggiano in ritiro, stanno consumando le ultime ore di attesa Rooney, Cristiano Ronaldo, Giggs, Xavi, Iniesta, Henry, Messi, Eto’oNomi sufficienti a far lievitare le quotazioni dei biglietti a cifre astronomiche, venduti la mattina della finale anche a 1500 Euro. Finale che vede affrontarsi due regine come il Barcellona di Guardiola, al suo primo anno sulla panchina catalana, e il Manchester United dell’immarcescibile Alex Ferguson, campione in carica dopo la vittoria ai calci di rigore contro il Chelsea l’anno precedente.

I piani di sicurezza studiati per evitare scontri tra le tifoserie fanno arrivare i supporter blaugrana da Villa Borghese. Una lunga colonna di inglesi, invece, scioglie la sua marcia sull’Olimpico lungo il viale di Tor di Quinto: alle sette della sera quelli che non sono ancora entrati nello stadio camminano in una lunga processione che comincia dal parcheggio antistante la caserma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto e termina ai cancelli d’ingresso della curva Nord. Giovani e meno giovani che indossano le maglie ufficiali che ha utilizzato la squadra nel corso degli ultimi anni, bevono birra e randomicamente alzano al cielo i cori di sostegno che sono abituati a cantare all’Old Trafford. Nonostante il Manchester detenga il titolo, non si avverte eccessiva spavalderia: il Barcellona è quanto di meglio ha espresso la Champions League quest’anno e affrontarlo in finale metterebbe timore a chiunque.


Sulla panchina catalana siede Pep Guardiola, alla sua prima stagione da allenatore “vero” dopo l’esperienza maturata nel Barcellona B l’anno precedente. Trentotto anni, una carriera luminosa da calciatore, nella quale ha vinto praticamente tutto, Guardiola torna all’Olimpico dopo una breve parentesi da giocatore nella quale ebbe poca fortuna, osteggiato dalla lenta ripresa da un infortunio e dall’ostracismo di Capello, che non riusciva a collocarlo in un centrocampo per il quale, al posto di Pep, aveva sognato tutta un’estate l’arrivo di Edgar Davids, giocatore più dinamico che, nei piani del mister di Pieris, avrebbe dovuto formare una barriera insuperabile al fianco di Emerson. A movimenti compassati, Guardiola suppliva con una velocità di pensiero che lo fece apprezzare ancora giovanissimo a Johan Cruijff, il quale gli dette le chiavi del centrocampo del dream team catalano dei primi anni novanta. Uomo di spessore, a cui intelligenza e cultura danno una raffinatezza difficilmente riscontrabile nel mondo del calcio, Guardiola sarebbe in grado di svolgere un qualsiasi ruolo direttivo. Chi lo conosce bene ne auspica addirittura una candidatura ai vertici politici della Catalogna. Ma stasera, all’Olimpico, ha solo un compito: guidare i suoi alla conquista dell’Europa.


Le squadre scendono in campo, Barcellona con maglia a quarti rossoblu e Manchester con divisa completamente bianca. Primissimi minuti con qualche impennata degli inglesi che cercano di approfittare delle assenze in difesa che Guardiola sistema arretrando Yaya Tourè e spostando a destra capitan Puyol. Sono sussulti che, dopo appena otto minuti, vengono sedati da una percussione sulla destra di Eto’o che, in velocità, salta Vidic come un paletto e mira al primo palo di un sorpreso Van der Sar. 1-0, palla al centro e il Barcellona ricomincia a giocare. Passaggi su passaggi, tecnica sopraffina, un’occupazione degli spazi che non lascia mai in inferiorità numerica i giocatori nel vivo dell’azione. Xavi, Busquets, Iniesta sembrano poter palleggiare all’infinito: recuperano palloni, li domano e li servono su corridoi disegnati dai movimenti di Messi, Eto’o e Henry. In questo spartito i difensori puri sembrano orpelli sgraziati ed inutili per un gioco che fa della sua bellezza non un vano canone estetico ma un elemento sostanziale per arrivare al risultato. Il Barca del 2009 è una proiezione aggiornata dell’Olanda degli anni settanta, trapiantata nei suoi valori dall’esodo di Cruijff in terra catalana dove il profeta del gol, prima da calciatore e poi da allenatore, è riuscito a trasferire una cultura calcistica che fa della partecipazione al gioco di tutti i giocatori, della preparazione atletica e dell’intelligenza applicata negli schemi i cardini del calcio totale. Simile ai brasiliani per tecnica, orientato al risultato nella migliore tradizione europea, il Barcellona è completamente padrone del campo. Il samba lascia spazio al tiki-taka, a volte stucchevole quando i blaugrana hanno bisogno di rifiatare, ma efficace per abbassare i ritmi e togliere mordente agli avversari prima di trovare lo spazio giusto per affondare ancora. Come avviene al venticinquesimo minuto della ripresa, quando Xavi mette all’altezza del vertice destro dell’area di porta un pallone delizioso sul quale Messi, la Pulce, stacca di testa, inutilmente contrastato da un Ferdinand messo fuori causa dalla traiettoria spiovente del cross, e deposita in rete il pallone che chiude la partita.      
Un risultato che porta la terza Champions League nella città di Gaudì e che consente a Guardiola, al suo primo tentativo, di fare uno storico “triplete”: campionato, coppa nazionale ed europea. E che cancella dalla mente di Pep il ricordo negativo di una Roma vissuta ai margini per sei lunghi, grigi mesi. Troppi e ingiustificabili per un vincente come lui. 

Fonte: Paolo Valenti

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