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Osvaldo e quelle rovesciate perdute (Seconda parte)

condividi su facebook condividi su twitter 28-09-2016

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Osvaldo e quelle rovesciate perdute (Seconda parte)

PAOLO VALENTI - Febbraio 2013, trasferta contro la Sampdoria: in svantaggio per 1-0, Daniel ottiene un rigore che rimetterebbe la squadra in partita. Tutti sanno che se Totti gioca e l’arbitro concede un rigore, il capitano di lì a pochi secondi si trova sul dischetto per trovare l’equilibrio giusto tra gesso e pallone e andare a calciare. Ma questa volta non è così: Osvaldo prende il pallone dirigendosi alla battuta; con Totti nemmeno uno sguardo. Se segna diventa un eroe temerario, l’attaccante coraggioso che si carica il peso della squadra sulle spalle sollevando una tantum l’amico e capitano dal compito oneroso. Se sbaglia è la fine. E Daniel sbaglia: goffamente, in malo modo, quasi svogliato. La Roma perde, i tifosi sono infuriati: per il reato di lesa maestà e perché, dicono alcuni, Osvaldo avrebbe tirato il rigore per poter poi mostrare una maglietta con dedica alla sua nuova fiamma. Lui cerca di sistemare la situazione chiedendo pubblicamente scusa ma ormai è inutile. I tifosi lo fischiano a ogni partita, anche quando segna la sua prima tripletta con la maglia giallorossa nel finale di campionato. Lui si indispone, l’idillio finisce. Roma non è più casa sua, specialmente dopo la finale di Coppa Italia, ultima goccia amara di una stagione ricca di gol e di contraddizioni: sconfitta con la Lazio, una presenza limitata a una manciata di minuti nel finale. Insulti, sempre via Twitter, all’allenatore Andreazzoli, reo di averlo segregato dall’undici titolare. Un consuntivo di trentadue presenze e diciotto gol stagionali, il migliore della carriera, non gli vale la riconferma. Un paradosso dettato dall’ormai insanabile rottura dei rapporti con società e tifosi, nonostante l’amicizia con Totti. Dani non può saperlo ma professionalmente la sua storia ad alti livelli finisce qui. Nei tre anni seguenti vaga senza pace tra Inghilterra, Italia e Argentina. Trova anche il modo di fare sette partite col Porto, non riesce a completare una stagione intera con la stessa maglia: risse negli spogliatoi, litigi in campo, incomprensioni con allenatori e compagni. Osvaldo non ce la fa più, non regge di testa i ritmi del mondo professionistico. Il benessere, la consapevolezza del suo talento, l’insofferenza alle regole e la mai negata inclinazione per il rock lo mandano inesorabilmente al tappetto. Dopo essere rimasto senza squadra, ai primi di settembre di quest’anno sembra aver preso la decisione definitiva di lasciare il calcio per dedicarsi alla musica. Una notizia che alimenta stupore e amarezza: si, è vero, i calciatori che giocano a fare le prime donne danno spesso fastidio, anche ai tifosi. Ma Osvaldo, con le sue follie che forse non sono altro che il riflesso esteriore di fragilità incontrollabili, è stato un giocatore che accendeva la voglia di attaccare, quasi un unicum nel panorama di attaccanti moderni chiamati dalle necessità tattiche a muoversi inesauribilmente sull’intero fronte offensivo, a creare spazi per gli inserimenti dei compagni arretrati. In un tempo in cui essere un vero centravanti è quasi una vergogna, affastellato di falsi nueve chiamati al pressing e, occasionalmente, al gol, Osvaldo ha costituito un’eccezione venuta fuori dagli anni settanta, quando capelli lunghi e gesti acrobatici erano un patrimonio indispensabile per frequentare le aree di rigore. Nel dire addio all’Osvaldo calciatore è inevitabile tornare con la mente a quel gol impossibile segnato contro il Lecce cinque anni fa: un gol uscito da un pacchetto di figurine, troppo bello per poter essere vero. Come il suo talento, bruciato presto da un involucro troppo fragile per poterlo gestire.

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