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Paolo Sollier, comunista così

condividi su facebook condividi su twitter 28-10-2016

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Paolo Sollier, comunista così

PAOLO VALENTI - A metà degli anni settanta l’Umbria è una regione rossa, Perugia è governata da una giunta di sinistra e la maglia della squadra di calcio è dello stesso colore dal 1921. Forse per assonanza politica, o più probabilmente per divertimento del destino, nella squadra del Grifone, a metà del decennio, approda un ragazzo di ventisei anni che dello stereotipo del calciatore non incarna nulla: Paolo Sollier. Piemontese di Chiomonte, classe 1948, Sollier è un centrocampista offensivo che ha alle spalle campionati minori giocati nelle fila della Cossatese e della Pro Vercelli. L’approdo a Perugia significa toccare con mano il grande palcoscenico della serie A, far parte del progetto di sviluppo della squadra ideato dal presidente D’Attoma con la collaborazione dell’allenatore Castagner e del direttore sportivo Ramaccioni. Insomma, la grande occasione per dare una svolta alla carriera.
Il calcio dovrebbe occupare tutti i suoi pensieri: qualunque collega, al suo posto, indirizzerebbe i suoi sforzi per capitalizzare al meglio questa opportunità. Ma Sollier non è come gli altri: niente sfoggio di berline costose, nessuna diva pop da accompagnare a cena fuori. Sulle pagine dei giornali, più che per le prestazioni fornite in campo, ci finisce per il suo coinvolgimento politico e sociale. Una vocazione che nasce da lontano: già in età giovanile, Sollier è impegnato in un’organizzazione cattolica, Mani Tese, attiva nel settore del volontariato. Ma siamo alla fine degli anni sessanta, Paolo ha vent’anni e la spinta della contestazione non può non influenzare un ragazzo come lui. Matura l’avvicinamento alla sinistra: potere operaio, avanguardia operaia, democrazia proletaria. Anche perché, nei fatti, Sollier è un operaio: nel 1969 lavora otto mesi allo stabilimento Fiat di Mirafiori mentre milita in serie D nella Cossatese. Nella stagione 1973-74 indossa la maglia della Pro Vercelli, l’anno dopo il grande salto nel calcio che conta: il Perugia, la serie A, il paradiso di ogni ragazzino. Lui lo sa, ne è consapevole: vive il sogno a occhi aperti, coi piedi per terra, conscio di non essere un alieno ma una persona fortunata a fare un lavoro che è un gioco, che lascia tanto tempo libero per coltivare interessi e passioni. Legge Pavese, Evtushenko, Lee Masters, studia all’università, vive la politica. Il mondo del calcio lo guarda con sospetto: salvo rare e illuminate eccezioni (Rivera è il giocatore che stima di più), i ragazzi negli spogliatoi parlano di tutto tranne che di lotta di classe, anche se a Perugia qualche compagno sensibile al tema e in linea con la sua prospettiva lo incontra. E’ come se Sollier vivesse due vite separate: quella del campo, corse libere e geometrie intrise di fantasia, e quella extracalcistica, fatta di giorni spesi per costruire una società migliore. Due mondi che sembra impossibile unire. Paolo ci prova, quando all’inizio delle partite alza il pugno chiuso come segno di riconoscimento: sotto questa maglia, sembra voler dire, c’è un uomo che ama il prato verde ma posa le sue attenzioni anche su quello che gli ruota attorno. Una domenica lo fa anche a Torino, con gli Agnelli in tribuna: nessun timore, nessuna reverenza perché la lotta operaia non è un distintivo alla moda ma una convinzione ragionata e appassionata.
Il suo calcio prova a spiegarlo con un libro che viene pubblicato nel 1976: Calci e Sputi e Colpi di Testa. Una narrazione che svela il mondo del pallone che non va in copertina, quello di un campione come Marco Tardelli che implora il Sollier di turno di far vincere la Juventus contro il Perugia per non perdere la corsa scudetto coi cugini granata. Confessioni, fasci di luce su ombre che l’establishment del calcio non apprezza, che lo portano ad essere deferito dalla Federazione e, probabilmente, a essere cancellato definitivamente dal calcio che conta. Nel 1976-77 scende in serie B col Rimini e nella massima serie non torna più: fa la trafila a ritroso nelle serie minori, riavvicinandosi gradualmente alle origini. L’ultima stagione, a trentasette anni, la gioca nella Cossatese, la squadra dalla quale era partito sedici anni prima.
Il “dopo” è un collage di esperienze nelle quali mette ancora tutte le sue convinzioni: allena nelle categorie inferiori per insegnare un calcio diverso da quello che ha conosciuto, dal quale bandire sceneggiate e perdite di tempo che aveva avuto modo di stigmatizzare quando era in serie A. Collabora con diversi giornali, da Tuttosport a Micromega, e pubblica un nuovo libro nel 2008, Spogliatoio. Non è un caso, quindi, che diventi anche l’allenatore della nazionale degli scrittori, l’Osvaldo Soriano Football Club. E’ questa, idealmente, la dimensione naturale del calcio di Sollier: letterario, consapevole della sua funzione sociale, diverso e migliore di quello che i network televisivi hanno reso sempre più spettacolare e sempre meno sportivo. Un calcio che unisce la nostalgia delle aspirazioni tradite di adulti sovrappeso e la freschezza della speranza riversata sul futuro dai bambini. Già, i bambini: quelli coi quali, ai tempi del Perugia, si intratteneva per strada ad ascoltarne i pensieri. O quelli che, ai Giardini Lussemburgo di Parigi, lo fecero giocare con loro durante una vacanza extra, strappata ad Helenio Herrera quando era a Rimini, con la promessa di allenarsi da solo. Le radici del calcio alle quali ogni adulto dovrebbe tornarsi a specchiare.

 

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