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Ago e filo

condividi su facebook condividi su twitter 31-05-2016

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Ago e filo
PIERO TORRI - Francesco Totti capirà, ma il mio capitano è stato, è e sarà sempre Agostino Di Bartolomei. Magari sarà pure una questione d'età, la nostalgia di una giovinezza che è sempre più lontana, ma con Ago c'è stato un ineguagliabie spirito di identificazione di una Roma che non c'è più, di una Curva Sud che scriveva Ti amo in un enorme striscione esposto prima di un derby (vinto), di un sogno che era ancora rimasto tale, di un futuro che volevamo inseguire nella convinzione di raggiungerlo. Per questo Ago per me è speciale. E per questa ragione, quando il calendario recita trenta maggio, il mio dolore più intenso è relativo a quello del 1994, quello in cui il nostro capitano decise di andare a far sognare da qualche altra parte. Certo, c'è pure il trenta maggio di dieci anni prima, la finale di Coppa dei Campioni, il Liverpool, quei maledetti calci di rigore, ma il tempo quella ferita almeno un po' è riuscito a disinfettarmela, se non altro perché noi quella sera noi c'eravamo, protagonisti, gli altri erano solo spettatori. Quella di Ago no. E' una ferita incurabile. E' sempre lì, al punto che qualche volta ho avuto l'immotivato sospetto che fosse come una specie di senso di colpa che, poi, non si sa bene perché dovessi avercelo.
Ago aveva una faccia romana, occhi che non trasmettevano felicità, modi eleganti, un vocabolario che usava con molta parsimonia, un'autorevolezza che o ce l'hai o niente e nessuno potrà dartela. L'opposto di quello che, cinema e letteratura, di solito ci propinano a proposito del civis romanus del terzo millennio, il coatto, nei migliori dei casi il generone romano che poi altri non è che il coatto arricchito. Ed è una cosa che mi fa salire il sangue al cervello. Ago era una persona seria, onesta, per bene, in grado di sviluppare un pensiero indipendente come ce ne sono una marea di romani così, solo che in quest'epoca in cui ha ragione chi strilla di più, pazienza se racconta un mare di stronzate a suo uso e consumo, vengono messi in secondo piano da delinquenti, cialtroni, cazzari di professione. Ecco, Ago, per me ha rappresentato la Roma più vera, quella che ha un cuore, un'anima, una testa, una pelle, la Roma eterna capace di avere nel suo dna l'accoglienza, la solidarietà, la generosità, l'ironia, l'autoironia, la capacità di saper sorridere, la mancanza di pelo sullo stomaco.
E poi, mica tanto poi, Ago è stato il mio capitano. Romano e romanista, cresciuto tra Tormarancio e la Garbatella, cominciando a prendere a calci un pallone in un oratorio, poi la Roma, sempre la Roma, fino a un divorzio che fu traumatico per lui e per noi che, in Sud, cantavamo Ago, Ago, Ago Agostino gol. Tra i tanti, Ago ha anche un merito che non sempre è stato sottolineato. Quello di aver intessuto un filo giallorosso. Romano e romanista. Quello dei capitani nati e cresciuti nella nostra città. E che nel cuore hanno sempre avuto soltanto la Roma. Non ci vuole uno sforzo di memoria per seguire la direzione di quel filo giallorosso, Ago, Giuseppe Giannini, Francesco Totti, Daniele De Rossi, Alessandro Florenzi. Sì è vero che in questi anni delle maglie personalizzate, ci sono stati anche altri capitani, ma sono stati l'eccezione che conferma la regola. La Roma, da quei mitici anni ottanta a oggi, la fascia di capitano l'ha sempre consegnata a un suo figlio. Non credo ci sia al mondo un club con questa particolarità che nel calcio di questi tempi è roba da applausi a scena aperta. Per questo ogni volta che penso ad Ago, e non capita certo soltanto il trenta maggio, mi aggrappo a quel filo. Che neppure quello sparo all'alba è riuscito a strappare.

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